Il deflusso di fondi e capitali dai mercati emergenti è già iniziato a causa del rischio di cambiamento della politica monetaria statunitense.
Sono bastate le parole del presidente della Fed Bernanke, che non ha escluso una revisione della politica di quantitative easing, che i capitali occidentali, finora abbondanti, hanno dato segnali di inversione dei flussi.
L’aumento nel prossimo futuro dei rendimenti dei bond Usa a 10 anni, l’attuale è 2,15% rimane un dato basso in via prospettica, provocherà un forte manovra di drenaggio della liquidità dai mercati di tutto il mondo, costringendo i Paesi coinvolti a corrispondere rendimenti più alti o ad accettare svalutazioni ed inflazione.
Il problema si sta già manifestando: a maggio il real brasiliano e il peso messicano hanno perso il 6% del valore rispetto al dollaro. La rupia indiana è al suo minimo da quasi un anno, la lira turca ha toccato il fondo da gennaio 2012 (sebbene in quest’ultimo caso intervengano anche considerazioni di rischio politico). La svalutazione ha comportato un incremento dei rendimenti dei bond locali, e l’inflazione da beni importati inizia a farsi sentire. La possibilità che il capitale internazionale affluisca meno copiosa sta già creando problemi di finanziamento dei disavanzi di parte corrente dei paesi emergenti, minandone la crescita.
Un’idea del fenomeno in termini quantitative lo può dare l’andamento dell’indice MSCI Emergeng Markets, già crollato del 20% rispetto all’aprile 2012.