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L’occupazione cresce, i salari molto meno. Ma non toccherebbe a Landini e al sindacato battersi per migliorarli?

FIRSTonline

In qualunque sport c’è un miglior tempo personale anche per gli ultimi in classifica. Per quanto riguarda l’occupazione, l’Italia deve ancora fare di più rispetto ai paesi dell’Eurozona, soprattutto per quanto riguarda il lavoro delle donne e dei giovani. Ma le performance sono incoraggianti e migliorano ad ogni rilevazione. Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istituto di Statistica ‘’Ad aprile 2024 la crescita dell’occupazione (84mila unità) coinvolge sia i dipendenti, che raggiungono i 18 milioni 820mila, sia gli autonomi, pari a 5 milioni 156mila.

Il numero degli occupati – 23 milioni 975mila – è superiore di 516mila unità rispetto ad aprile 2023, per effetto dell’incremento di 444mila dipendenti permanenti e di 154mila autonomi e della diminuzione di 82mila dipendenti. a termine.

Su base mensile, il tasso di occupazione sale al 62,3%, quello di disoccupazione scende al 6,9%, mentre il tasso di inattività è stabile al 33,0%. La crescita dell’occupazione, osservata nel confronto trimestrale, si associa alla diminuzione delle persone in cerca di lavoro (-2,3%, pari a -44mila unità) e degli inattivi (-0,2%, pari a -19mila unità).Il numero di occupati ad aprile 2024 supera quello di aprile 2023 del 2,2% (+516mila unità). L’aumento coinvolge uomini, donne e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione in un anno sale di 1,1 punti percentuali. Rispetto ad aprile 2023, calano sia il numero di persone in cerca di lavoro (-11,8%, pari a -236mila unità) sia quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-1,3%, pari a -166mila).

La crescita dell’occupazione e le contradditorie obiezioni di Landini

Quando questi dati vengono esposti a Maurizio Landini, il leader della Cgil, dopo un attimo di smarrimento come se gli avessero comunicato una cattiva notizia, recupera la solita sicurezza un po’ talebana di chi sa come vanno davvero le cose e replica che i salari sono bassi e che molti lavoratori sono poveri pur lavorando. Poi sciorina una serie di numeri relativi a quanti lavoratori si applicano contratti non standard perciò ‘’maledetti’’(part time, lavoro a termine, somministrato, parasubordinato e quant’altro). E come al solito se la prende con quelle leggi sbagliate che la Cgil vuole sbaragliare con i suoi quattro referendum, come se fossero state le norme a creare la precarietà e non a regolare rapporti con caratteristiche corrispondenti ad esigenze del processo produttivo e del lavoro, desunte da un benchmarking diffuso in tutti i paesi sviluppati. Ma nei ragionamenti del segretario generale della Cgil c’è sempre un passaggio che meriterebbe una domanda: ‘’Scusi, Landini, ma lei dove lavora?’’.

In altre parole quali sono le autorità salariali di una moderna società sviluppata, fiera dei suoi diritti individuali e collettivi? Dove vengono stabiliti i livelli delle retribuzioni per il 97% dei lavoratori dipendenti italiani a cui si applicano i contratti stipulati da Cgil, Cisl e Uil e le loro controparti naturali? A chi rivendica migliori trattamenti economici? Al governo? Certo; ma nella sua qualità di datore di lavoro dei dipendenti pubblici. Per i privati il governo ha compiuto la sua parte: con la decontribuzione per i redditi bassi e medio bassi; con una revisione delle aliquote fiscali per quelli superiori ai 35 mila euro l’anno che connotano da un po’ di tempo a questa parte il confine tra la povertà e la ricchezza, nel senso che i percettori di redditi pari o superiori sono 5 milioni ma pagano il 56% dell’Irpef senza aver mai usufruito negli anni del nostro scontento di nessun aiuto, sostegno, bonus il cui ammontare ha superato, nel complesso, ben 60 miliardi. A parte il fatto che in Italia, a confronto con gli altri paesi dell’area euro, sono bassi i salari più alti – solo il 9% percepisce più di 40mila euro l’anno – quali sono i motivi di questa condizione di inferiorità? E come si può rimediare? Proprio sabato scorso ha esordito come Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta con le consuete ‘’Considerazioni finali’’ a commento della Relazione per il 2023. ‘’Il capitale umano – secondo il Governatore – ha un ruolo decisivo. Il ritardo rispetto a molti paesi avanzati nelle competenze lavorative di giovani e adulti si riflette in un’occupazione sbilanciata verso le professioni meno qualificate. Competenze e conoscenze, da nutrire e rivitalizzare lungo tutto l’arco della vita, sono il cardine non solo del progresso economico, ma anche e soprattutto di quello civile’’. Nella Relazione vengono indicate motivazioni più specifiche ‘’ Lo scorso anno la crescita del costo orario del lavoro nel settore privato non agricolo si è intensificata (2,4 per cento, dall’1,1 del 2022; pur mantenendosi su un livello nettamente inferiore a quello medio osservato nell’area dell’euro (5,6 per cento). La dinamica ha riflesso l’accelerazione delle retribuzioni minime stabilite dalla contrattazione collettiva (2,2 per cento, da 1,0), che hanno risposto con ritardo alla variazione dei prezzi al consumo a causa della durata pluriennale degli accordi tra le parti sociali e della lunghezza dei processi di negoziazione dei rinnovi contrattuali. L’aumento dei minimi retributivi è stato più marcato nell’industria (3,3 per cento, da 1,5): vi ha inciso anche la clausola di salvaguardia del contratto del settore metalmeccanico, che interessa oltre 2,2 milioni di dipendenti e prevede il recupero annuale automatico, posticipato, degli scostamenti tra la dinamica retributiva e l’andamento realizzato dell’IPCA al netto dei beni energetici importati. Nei servizi privati la crescita delle retribuzioni contrattuali è stata più moderata (1,3 per cento, da 0,5) anche a causa dei ritardi nei rinnovi: nonostante gli accordi siglati nel corso dell’anno, la quota di dipendenti con un contratto collettivo scaduto è rimasta particolarmente elevata (73,1 per cento in media d’anno).

I salari bassi e i limiti di una contrattazione centralizzata

Le voci retributive diverse dai minimi tabellari definiti dalla contrattazione collettiva, che nel 2022 avevano sostenuto la dinamica dei redditi dei lavoratori, hanno invece rallentato, fornendo un contributo modesto all’aumento del costo orario del lavoro nel settore privato non agricolo. L’incidenza degli oneri sociali è rimasta pressoché stabile.

Nel complesso del periodo 2022-23 la crescita del costo orario del lavoro nel settore privato non agricolo è stata in media inferiore al 2 per cento all’anno, risultando significativamente meno marcata di quella dei prezzi al consumo. Ne è derivata per i lavoratori dipendenti una perdita netta del potere d’acquisto dei redditi orari, di circa il 10 per cento nel biennio.

Nel totale dell’economia il costo orario del lavoro ha decelerato nel 2023 rispetto all’anno precedente (all’1,5 per cento, dal 2,4), per effetto della diminuzione delle retribuzioni orarie effettive nel comparto della Pubblica amministrazione e dei servizi prevalentemente pubblici (sanità e istruzione; -1,8 per cento): il calo è dipeso dall’erogazione nel 2022 di numerosi pagamenti una tantum, o a titolo di arretrato, a compensazione del ritardo nei rinnovi dei contratti.

Da queste considerazioni emerge chiaramente il limite di una contrattazione collettiva imperniata sul contratto collettivo di lavoro (un’impostazione difesa strenuamente proprio dalla Cgil) a scapito di un maggiore sviluppo della contrattazione decentrata e di prossimità (peraltro favorita da un incentivo fiscale)

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