Dietro l’angolo c’è il ritorno dello Stato imprenditore? In un Paese fortemente ideologizzato e con poca memoria storica come l’Italia, che sembra dimenticare i disastri dell’Efim, della Gepi, della siderurgia di Stato, dell’Alitalia e che chiude gli occhi di fronte al caso paradigmatico della Rai, tutto può essere. E di certo le privatizzazioni degli anni ’90, senza le quali l’Italia non sarebbe mai entrata nell’euro, non godono di grande popolarità, un po’ per la debolezza del capitalismo italiano e un po’ per le rappresentazioni caricaturali che si continua a dare della privatizzazione principale, quella di Telecom Italia, dimenticando che la vera jattura non fu la privatizzazione ma il dopo-privatizzazione con l’Opa a debito, avallata e sostenuta dal governo D’Alema che apri la strada ai finanzieri d’assalto alla Chicco Gnutti che circondavano Roberto Colaninno e che fu incredibilmente sostenuta da Mediobanca. Ma di certo nel mondo il pendolo sembra oscillare oggi più dalla parte dello Stato che da quello del mercato e l’inevitabile salvataggio pubblico del Monte dei Paschi (per fortuna il fallimento della Lehman e le sue disastrose conseguenze hanno insegnato qualcosa) alimenta suggestioni e paure.
Il convegno che si è tenuto oggi al Senato, nella storica Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, sull’accattivante tema “Lo Stato azionista: finalità, regole, strumenti” promosso dal presidente della Commissione Industria di Palazzo Madama, Massimo Mucchetti, e dal preside della Facoltà di Economia dell’Università Cattolica, Domenico Bodega, ha permesso di mettere a nudo le tendenze in atto, anche perché in apertura Mucchetti, non scordandosi di essere un giornalista, ha aggiunto subito pepe al dibattito proponendo un nuovo ruolo dello Stato in economia e suggerendo di riunire e di accorpare in una nuova Agenzia del Tesoro o nella Cassa depositi e prestiti (Cdp) tutte le attuali partecipazioni azionarie del Tesoro.
Le relazioni tecniche di Fulvio Coltorti, oggi docente alla Cattolica ma in passato responsabile dell’Ufficio studi della Mediobanca di Cuccia, di Massimo Florio della Statale di Milano e di Franco Mosconi, economista industriale dell’Università di Parma e già braccio destro di Romano Prodi quand’era presidente della Commissione Europea, nonché l’intervento del presidente di Fincantieri, Giuseppe Bono, fresco dell’acquisizione dei cantieri francesi di Saint Nazaire, hanno offerto dati e spunti di riflessione. E l’ex ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, non ha tradito la sua fama di guastafeste agitando le acque con il disconoscimento pubblico della sua creatura, la Cdp. “Oggi – ha confessato – avrei qualche dubbio a riproporla perché il rischio non è che diventi un nuovo Iri ma che diventi la Gepi o la Consip”.
Per la verità il presidente della Cdp, Claudio Costamagna, aveva chiarito subito prima che, se restano in vigore le regole attuali, la Cdp non può raccogliere molti dei tanti messaggi tentatori che vengono dalla politica e che il suo statuto le impedisce di intervenire in aziende in perdita (vedi Alitalia) e che, oltre alla norme nazionali, ci sono quelle della Ue sugli aiuti di Stato e quelle della Bce sulla vigilanza bancaria a delimitare il raggio d’azione della Cassa che punta invece a promuovere lo sviluppo, soprattutto tecnologico, sostenendo progetti innovativi laddove il mercato non arriva.
Ma soprattutto Costamagna, che ha un passato in Goldman Sachs e che sarebbe difficile classificare come statalista, ha raccomandato di evitare fuorvianti contrapposizioni tra azionisti pubblici e privati perché ciò che conta per un’azienda non è tanto il colore della sua proprietà ma la qualità del suo management, che è ciò che fa realmente la differenza.
A chiudere il cerchio ci ha pensato poi, nelle sue conclusioni, il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda che ha suggerito di evitare discussioni ideologiche tra Stato e mercato e di attenersi invece a un “liberalismo pragmatico”. Quindi, finché resteranno gli attuali equilibri politici rappresentati dal governo Renzi prima e dal Governo Gentiloni adesso, nessun allargamento dello Stato in economia, salvo l’ineluttabile eccezione del Monte dei Paschi e delle banche venete. Ma questo non vuol dire che lo Stato abbassi la guardia, soprattutto di fronte a tentativi surrettizi di scalata di soggetti extra Ue.
Ecco perché Calenda e il Governo puntano a rafforzare il cosiddetto Golden Power, non allargando i settori economici dove lo Stato può far valere i suoi poteri, ma obbligando gli investitori esteri che superano una certa soglia azionaria, specie in campi sensibili, a rivelare le loro intenzioni. Questo nulla toglie – e Calenda è stato chiarissimo – che il Governo continui a considerare più che benvenuti gli investimenti esteri in Italia. E nulla toglie al favore con cui il Governo guarda alle aziende pubbliche italiane purché stiano sul mercato, senza bisogno di allargare l’area degli interventi della Cdp e senza considerare strategico anche ciò che non lo è. Da questo punto di vista si può pensare a una nuova politica industriale, che esclude in partenza nostalgie per il passato e per improbabili riedizioni dell’Iri, ma che punti all’innovazione e all’internazionalizzazione, trovando un equilibrio dinamico tra la realtà delle grandi imprese pubbliche e il vivaio delle piccole e medie imprese.
Allegati: LA RELAZIONE DI MUCCHETTI