Mario Draghi non è mai stato così esplicito. La Bce si attiverà a salvaguardia della stabilità dei prezzi sia rispetto alle spinte inflazionistiche sia deflazionistiche. Lo farà con misure convenzionali (taglio dei tassi) ma se necessario anche “con un’operazione di rifinanziamento a più lungo termine mirata, oppure attraverso un programma di acquisti di attività cartolarizzate”, infine con l’acquisto di un “ampio” spettro di titoli. Lo ha detto lo scorso giovedì in un discorso ad Amsterdam in occasione del duecentesimo anniversario della Banca centrale olandese.
Quello che preoccupa il presidente della Bce è il tasso di inflazione della zona euro che rimane allo 0,5%, ben sotto l’obiettivo di medio termine dell’Eurotower (il 2%). Lo spettro della deflazione si agita in Europa ormai da tempo. Più pericolosa dell’inflazione, la caduta dei prezzi è in grado di innescare una spirale micidiale: i ricavi delle imprese calano e le imprese indebitate falliscono, investitori e consumatori tendono a spendere di meno nell’attesa di poter comprare successivamente a prezzi migliori (anche se in un primo momento i dipendenti e i pensionati sono avvantaggiati e vedono aumentare il proprio potere d’acquisto), l’economia si blocca e nel lungo termine il livello degli stipendi viene schiacciato da un sistema ormai depresso.
Il risultato è trovarsi tutti più poveri. L’esempio sempre riportato è quello del Giappone che negli anni Novanta, con lo scoppio della bolla borsistica e immobiliare, finì nella trappola della deflazione dibattendosi in un ventennio di economia anemica. Oggi il premier Shinzo Abe, per tentare di risvegliare il Paese dal torpore, è sceso in campo con un bazooka monetario e di riforme mai messo in campo prima (l’Abenomics) a cui tutto il mondo sta guardando con attenzione.
Draghi in più di un’occasione ha voluto rassicurare sulle opportune differenze tra la situazione dell’Eurozona e quello che si è verificato in Giappone. “Ci sono molti motivi per cui l’Eurozona è in una situazione radicalmente diversa dal Giappone”, spiegava nella conferenza stampa sui tassi dello scorso dicembre 2013. “L’Eurozona non si trova davanti alla deflazione riscontrata dal Giappone e “non si vedono rischi al momento”, era tornato a ripetere a inizio aprile seppur precisando che “questo non significa che il consiglio debba restare indifferente”. Perché “Puoi pensare di avere inflazione zero quando in realtà sei già in deflazione”.
Situazione differente, quella giapponese, ma abbastanza emblematica da essere studiata accuratamente e presa in esame per trarne importanti lezioni per l’Eurozona. Il think tank Bruegel, basato a Bruxelles e guidato dall’ex dominus della Bce Jean-Claude Trichet, ha appena pubblicato un libro nato dalla partnership di ricerca avviata nei mesi scorsi tra l’Unione europea e il Giappone con l’obiettivo di approfondire similitudini e lezioni valide per entrambi i Paesi partendo dal presupposto che “Giappone ed Ue sono entrambe economie aperte con commercio significativo e legami finanziari, entrambe devono affrontare sotto molti punti aspetti sfide simili” .
Il lavoro, che si intitola “Japan and the European Union in the global economy”, raccoglie i contributi di diversi autori (da Peter Praet, membro del board della Bce, a Guntram B.Wolff direttore dello stesso Bruegel, da Takuji Kinkyo, professore di Economia alla Kobe University a Kiyohiko G.Nishimura dell’Università di Tokyo) e e si articola in quattro parti: 1) commercio e legami finanziari tra Europa e Giappone; 2)la bolla immobiliare, la risposta del governo e gli aggiustamenti economici/aziendali: può l’Europa imparare dal Giappone; 3)politiche finanziarie e fiscali e il sistema monetario in Giappone ed Europa; 4) Quali lezioni trarre?
Il libro ospita anche la tesi di Joachim Fels, capo economista globale di Morgan Stanley, che ormai da diversi mesi parla di “rischio reale di Japanification dell’euro area”, ossia di giapponesizzazione, ricorrendo al termine inglese “Japanification” che indica il processo o il desiderio di diventare parte della società giapponese. Il contributo di Kiyohiko G.Nishimura, a capo della Facoltà di Economia dell’Università di Tokyo traccia invece tre pratici consigli per i politici: 1) evitare il wishfull thinking e affrontare la realtà; 2) essere proattivo, non reattivo; 3) comunicare efficacemente. Infine per Peter Praet, membro del board Bce, la lezione per l’Eurozona è chiara: la ristrutturazione del sistema finanziario deve essere portata a termine nella sua interezza, delle riparazioni selettive non saranno abbastanza.
LA JAPANIFICATION DELL’EUROZONA
“Non è ironico?”, si chiede Fels nel suo contributo (nella parte 2) che riprende un suo report già del 30 ottobre 2013: “proprio quando il Giappone sta per uscire dalla deflazione grazie alla sua aggressiva politica monetaria e fiscale, l’area euro rischia di entrare in una trappola deflazionistica simile a quella che ha vissuto il Giappone tra gli anni Novanta e Duemila. Allora il Giappone ha sperimentato una recessione prolungata, una risposta in ritardo e troppo cauta a livello monetario, un forte apprezzamento periodico della valuta, un fallimento a mettere in atto una rapida pulizia dei bilanci bancari, una stretta fiscale prematura nel 1997 che ha rispinto l’economia in recessione e una generale sclerosi di riforme istituzionali. “Suona familiare?”, provoca Fels. “Ovviamente – aggiunge l’economista –l’area euro non è il Giappone e la storia non ripete sé stessa. Ma ci sono echi. E dati i molti parallelismi, una Japanification dell’area euro è un rischio serio”.
Ma quanto giapponese è l’area euro? In altre parole, quanto l’Eurozona è simile al Giappone? Fels stila un elenco di similitudini e parallelismi:
1) Come in Giappone, un ciclo di boom, bolla e scoppio è stato all’origine dei problemi attuali dell’area euro.
2) Tuttavia, molto del boom e della bolla alla periferia è stato finanziato dai prestatori del centro, che hanno tolto velocemente il loro capitale quando la bolla è scoppiata. Così lo scoppio della bolla e i problemi bancari si sono trasformati in una crisi dei pagamenti interna all’area euro che ha portato a dubitare della fattibilità di una moneta unica. In questo senso, rileva Fels, la crisi europea è stata molto peggio di quella giapponese.
3) Inoltre, i mercati hanno presto realizzato che gli Stati dell’Eurozona non erano dei veri Stati perché erano indebitati in una valuta che non potevano stamparsi da soli. Di conseguenza i mercati si sono rifiutati di finanziare i governi a un tasso di interesse ragionevole e si è innescata la crisi dei debiti sovrani. Di conseguenza, al contrario del Giappone, i Paesi della zona euro più colpiti dalla crisi hanno perso la possibilità di attuare politiche fiscali anticicliche e hanno invece dovuto applicare la stretta nel momento di calo dell’economia, aggravando quindi la recessione. Al contrario, il Giappone è stato in grado di mitigare le conseguenze della recessione nel settore privato attraverso una politica fiscale espansiva. E la decisione del governo di alzare la tassa sui consumi nel 1997 dopo la ripresa economica del 1995-96, si è infatti rivelata un errore perché ha spinto nuovamente il Paese in recessione.
4) Un altro importante parallelismo con il Giappone di allora e l’area euro di oggi è il lento progresso nel pulire i bilanci delle banche e nel ricapitalizzare le istituzioni finanziarie. Come conseguenza, sia il Giappone sia l’area euro hanno sperimentato (e la seconda lo sta ancora sperimentando) una contrazione dei volumi di credito. Il piano della Banca centrale europea è ottenere una pulizia dei bilanci e una ricapitalizzazione nel percorso verso l’Unione bancaria. Se avrà successo, questo potrebbe essere un importante catalizzatore per aggiustare il meccanismo del credito. In ogni caso, c’è ancora molto lavoro da fare, e nel frattempo, continuerà probabilmente il deleveraging bancario con i suoi effetti deflazionistici.
5) Fino a oggi la Bce è riuscita a evitare la deflazione e tenere le aspettative inflazionistiche ancorate alla sua definizione di stabilità dei prezzi (sotto ma vicino al 2%). Questo, dice Fels, è stato dovuto alla sua piuttosto tempestiva e aggressiva risposta dallo scoppio della crisi del 2007-2008, quando la Bce ha iniziato a impegnarsi in varie forma di allentamento non convenzionale. Comunque, bisogna notare che la deflazione si affermò in Giappone a distanza di otto anni, quindi Fels ritiene che sia troppo presto per gioire per l’area euro. Il rischio di deflazione nell’Eurozona è aumentato recentemente. Perché?
Il credito continua a contrarsi dal momento che il deleveraging delle banche continua e anzi accelera nel 2014 in vista dell’asset quality review e degli stress test. In secondo luogo, gli stipendi di diversi Paesi in crisi come la Spagna stanno iniziando ora a ridursi come conseguenza ritardata dell’alto tasso di disoccupazione e delle riforme passate del mercato del lavoro. Terzo, l’euro si è rafforzato ulteriormente in risposta alla decisione della Fed sul tapering. Nel frattempo l’inflazione corrente sta già viaggiando significativamente sotto il target. Ma fino a ora, rileva Fels, la Bce ha testardamente rifiutato di riconoscere i rischi deflattivi (il libro è stato pubblicato l’8 aprile quindi prima delle ultime dichiarazioni di Draghi ndr), in modo molto simile a come la Banca del Giappone fece prima dell’inizio della deflazione nel Paese.
Per l’economista la “Japanification” dell’Eurozona può essere evitata se i politici europei prestano attenzione a tre lezioni del Giappone:
1)la politica monetaria si deve muovere presto e in maniera aggressiva prima che la deflazione si manifesti;
2) i regolatori devono mettere in atto una pulizia dei bilanci bancari, compresa una realistica valutazione degli asset cattivi e rapide ricapitalizzazioni dove necessario;
3) I governi dovrebbero evitare politiche fiscali eccessivamente severe che rischiano di rispingere l’economia in recessione. “Penso che ci siano buone possibilità che queste lezioni vengano prese in considerazione e la “Japanification” dell’euro area possa essere evitate. Ma sono nervoso”, conclude Fels.
I TRE CONSIGLI AI POLITICI
Dei molti consigli che si possono tracciare dallo studio sulle esperienze giapponese ed europea, Nishimura (Università di Tokyo), sceglie di focalizzarsi su tre aspetti. Il primo riguarda la necessità di evitare l’atteggiamento di wishful thinking, che ci ha portato ad elaborare stime che si sono rivelate più volte troppo ottimistiche. “Il wishful thinking nelle crisi è particolarmente dannoso – dice Nishimura – dal momento che porta al comportamento di “attesa per l’old normal (la normalità del passato ndr) che non torna mai. Il che causa un sostanziale ritardo nell’implementazione delle giuste politiche”. Nishimura rileva che c’è ampia evidenza di come siano stati sottostimati problemi che si sono poi ingranditi diventando preoccupanti. L’ampiezza dell’impatto dei non performing loans è l’esempio peggiore di sottovalutazione e di wishful thinking di questo tipo, il quale ha reso i problemi nei bilanci nel Giappone degli anni Novanta e dell’Eurozona negli anni Duemila molto più severi e persistenti.
La seconda lezione riguarda la capacità di agire proattivamente e non reattivamente. Che si scontra però con le esigenze dei policymaker. “I policymakers sono sempre più sotto pressione in relazione alla loro accountability, il che implica che le loro politiche debbano essere basate sull’evidenza”, dice Nishimura. E così tendono ad evitare di prendere decisioni immediatamente quando i dati economici disponibili non mostrano cambiamenti nelle condizioni economiche. “Aspettano più dati che confermino i cambiamenti – aggiunge Nishimura – Il che può essere saggio in tempi normali ma non è spesso così in periodi di crisi. Sfortunatamente i dati sono spesso approssimativi e in ritardo”. Nishimura porta ad esempio la dinamica del Pil giapponese concludendo che le statistiche sul prodotto interno lordo non si sono rivelate nei periodi di difficoltà delle buone guide per le policy economiche. Problematica è soprattutto la tendenza all’iniziale sottovalutazione.
Infine, Nishimura raccomanda di comunicare efficacemente. “Quando l’economia attraversa profondi cambiamenti strutturali – fa notare – il vecchio modo di pensare non è più valido sia in main street (l’economia reale delle persone) sia nei mercati finanziari. Allora le politiche di comunicazione diventano molto importanti nello spiegare i problemi che si devono affrontare e le politiche di cui abbiamo bisogno”. Non solo. Le politiche di comunicazione non devono essere semplicemente basate sull’annuncio di previsioni e intenzioni d’azione, ma devono comprendere un’attenta gestione della credibilità.