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L’Italia è il paradiso dei dialetti, ecco le origini. Anche la Germania però non scherza

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Il glottologo Daniele Vitali, che sta preparando un libro sugli argomenti della lingua che tratta in vari post su FIRSTonline, ci porta nell’Italia dei dialetti con un post dedicato proprio alle origini di questo fenomeno nella nostra penisola.

Si sente sempre dire che “Il dialetto cambia da paese a paese”, al punto che questa frase è diventata un luogo comune. Fondato, afferma Vitali, a differenza di tanti altri sull’origine della grande varietà dialettale italiana. Ma seguiamo il suo ragionamento iniziando da dove tutto è iniziato.

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Se l’Italia è il paradiso del dialettologo, anche la Germania non scherza

Gerhard Rohlfs, che era tedesco ma è stato uno dei più grandi studiosi della lingua italiana e dei suoi dialetti (sua una monumentale Grammatica Storica in tre volumi tuttora studiata nelle università), faceva sempre notare l’eccezionale varietà linguistica dell’Italia rispetto agli altri paesi d’Europa.

In effetti tanti non-italiani (non uso la parola “stranieri” che ha ormai poco senso nel contesto europeo) mi hanno fatto più o meno lo stesso discorso: “Ogni volta che si incontrano degli italiani di diverse regioni, subito si finisce a parlare dei rispettivi accenti” e, come sappiamo, i diversi accenti sono dovuti proprio ai diversi dialetti. 

Posso confermare l’osservazione dei miei amici non-italiani in base alla mia esperienza personale: da assiduo frequentatore dei treni ai tempi dell’università, ho sentito più conversazioni sugli accenti e i dialetti che sullo sport nazionale e il festival delle canzonette (il che è tutto dire). E ciascuna di quelle conversazioni finiva con gli interlocutori unanimi: “il dialetto cambia da paese a paese”.

Fin qui tutto bene (anche se qualche caso di villaggi limitrofi che parlano sostanzialmente allo stesso modo si trova), però mi sembra che le ragioni di questa grande varietà siano un po’ meno conosciute. In effetti, poi, l’Italia è in una situazione simile a quella della Germania, paese che siamo abituati a considerare come agli antipodi del nostro e col quale invece condividiamo secoli di storia.

Il latino dalla città all’impero

Facciamo un salto all’indietro, e andiamo all’anno 117 d.C., quando l’imperatore Traiano porta l’Impero Romano alla sua massima espansione territoriale. A quell’epoca l’impero comprendeva tutto il Mediterraneo e gran parte della costa del Mar Nero, attraverso la Mesopotamia toccava il Golfo Persico e risalendo il corso del Nilo costeggiava il Mar Rosso. In Europa i suoi confini settentrionali erano delimitati dal Reno e dal Danubio, in Gran Bretagna dal Vallo di Adriano. 

Mentre nella parte orientale dell’impero aveva ampia circolazione il greco, lingua di una civiltà raffinata alla quale la stessa cultura latina doveva moltissimo, nella parte occidentale il latino soppiantava decine di lingue dei popoli conquistati. Contrariamente al luogo comune, non è però questa la ragione della diversità delle lingue romanze, e neanche dei dialetti italiani. 

Infatti, nelle province conquistate per prime, in cui l’assimilazione linguistica e culturale era stata più profonda, le varie popolazioni erano profondamente romanizzate e, per gli standard dell’età antica in cui i viaggi duravano diversi giorni e non c’erano i mezzi di comunicazione moderni, il latino doveva essere abbastanza unitario.

Il motivo di quest’affermazione, apparentemente controintuitiva, è che lo status imperiale aveva fatto del latino una lingua di primaria importanza, indispensabile per progredire socialmente. Chiunque avesse un po’ di mobilità, sociale o geografica, parlava latino, e lo trasmetteva ai figli. Abbiamo anche testi dei grammatici antichi che stigmatizzano errori grammaticali e pronunce devianti: la lingua era in movimento, ma non tutte le novità attecchivano, poiché alcune venivano accettate, altre invece rifiutate come segno d’ignoranza e maleducazione. C’era insomma una questione di prestigio di cui tener conto, il che limitava le derive.

Le evoluzioni del latino

Nei tanti secoli in cui si parlò, il latino conobbe varie evoluzioni, passando per diverse fasi: latino arcaico, classico, imperiale. Ebbene, molte evoluzioni che segnano il passaggio dal latino classico a quello imperiale erano condivise fra le diverse province dell’impero. Non si trattava dunque di una lingua tramortita dal suo spezzettamento per mille, ma di uno strumento comunicativo di vasta circolazione

Per dirla più chiaramente: finché le cose andavano bene, tra le diverse province dell’Impero Romano d’Occidente si comunicava, e lo si faceva in un latino non troppo provinciale (persino una delle prime grandi differenziazioni, quella che riguarda il trattamento delle consonanti sorde intervocaliche, ha in realtà un’origine comune, come ho argomentato al volume IV di Dialetti emiliani e dialetti toscani).

Anche quando la pressione dei popoli germanici si fece più forte, e l’impero cominciò a sgretolarsi, gli abitanti di quelle province continuarono a considerarsi romani e a parlare il latino. 

Le cose cambiarono poco con le cosiddette invasioni barbariche e la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente nel 476 d.C., nonostante un altro luogo comune voglia il latino dell’Iberia modificato dai Visigoti, quello della Gallia dai Franchi e quello della Cisalpina dai Longobardi. 

In realtà, le cose cambiarono moltissimo a livello sociale, con la popolazione germanica dei nuovi regni che andava a costituire l’aristocrazia dominante sulla popolazione romana sottomessa, ma a livello linguistico non ci furono novità mozzafiato: i “romani” continuarono a parlare latino e, per un certo periodo, i vari popoli germanici seguitarono a utilizzare la propria lingua, ricorrendo al latino come lingua scritta amministrativa. Dopodiché si assimilarono linguisticamente al grosso della popolazione.

La formazione dei volgari

Naturalmente, col passare del tempo le cose cominciarono a cambiare: nel periodo fra il VI e l’VIII secolo, la lingua effettivamente parlata si allontanò sempre più dal latino, anche da quello di età imperiale, fino a renderlo incomprensibile agli indotti (date le condizioni sociali sopra descritte, la stragrande maggioranza della popolazione). 

Arriviamo così al Concilio di Tours dell’813, in cui si stabiliva che il clero dovesse predicare nella rustica Romana lingua, l’unica comprensibile al popolo, il quale parlava ormai qualcos’altro, ossia il volgare

Pochi anni dopo, nell’842, due eredi di Carlo Magno, ossia Carlo il Calvo re dei Franchi occidentali e Ludovico il Germanico re dei Franchi orientali, s’incontrarono a Strasburgo per giurarsi fedeltà reciproca ed escludere alleanze con Lotario I, il quale oltre che loro fratello maggiore era anche l’imperatore. 

I giuramenti di Strasburgo dovevano essere capiti pure dai rispettivi eserciti, e furono pertanto formulati nelle loro lingue: Carlo giurò in antico alto-tedesco per essere inteso dai soldati di Ludovico, e questi giurò in francese antico a beneficio dei soldati di Carlo.

Naturalmente, il volgare non era lo stesso dappertutto: se a Strasburgo nel IX secolo risuonò il francese antico (Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun saluament), in Italia quello stesso secolo e il successivo ci hanno lasciato l’Indovinello veronese (Se pareba boves) e il Placito capuano (Sao ko kelle terre). 

Laddove un tempo c’era un solo Stato, adesso ce n’erano diversi, così che la circolazione (delle persone, delle idee, delle novità linguistiche) era interrotta da confini politici. L’evoluzione del latino, che non si era mai interrotta, aveva pian piano allontanato fra loro le varietà dei diversi Stati, fino a causare difficoltà sempre più gravi di comprensione reciproca.

Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

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