Che l’Italia stia vivendo una delle maggiori crisi da quando esiste lo Stato unitario è fuori discussione. Le più accreditate agenzie di rating danno per quest’anno un calo del PIL del 10%, la performance peggiore fra le economie avanzate. Certo, un risultato di questo genere si spiega con gli effetti del coronavirus, ma non si può dire che la pandemia abbia arrestato una fase di crescita. Al contrario, quanto a produzione, occupazione, investimenti, produttività, il quarto di secolo che precede il 2020 appare come uno dei più negativi nella storia economica del nostro paese, non ancora ripresosi dallo colpo del 2008, e ora di fronte a una crisi sanitaria, sociale ed economica senza precedenti.
Cosa può dirci la storia sulla solidità del tessuto economico e sociale italiano, e quindi sulle potenzialità di una ripresa? Quali sono le forze profonde che possono spingere verso un recupero di posizioni di benessere e dinamismo economico un paese stremato dall’emergenza? Quale la sua collocazione – di apertura o chiusura – nel mondo globalizzato?
In effetti, nelle vicende dell’Italia postunitaria, constatiamo due forti accelerazioni della crescita economica – la prima fra gli anni del primo novecento e il primo conflitto mondiale, la seconda nel ventennio 1950-1970 – accelerazioni che hanno contribuito in modo decisivo a far sì che il paese si collocasse nel gruppo più dinamico del capitalismo mondiale, e nel 1991 fosse il quinto per ricchezza nella graduatoria globale.
Per gli anni 1950-1970 è entrata nel linguaggio comune l’espressione “miracolo” economico, ma lo storico dell’economia Giorgio Mori ha individuato il “vero miracolo” all’inizio del Novecento.
Negli anni precedenti in Italia era successo di tutto. L’economia andava così male per gli effetti della prima globalizzazione, che nel 1891 la situazione finanziaria non consentì nemmeno di operare la rilevazione del Censimento. Di lì a poco, fallirono le maggiori banche del paese, compresa la Banca Nazionale, il più importante istituto di emissione. A Milano si verificarono tumulti contro la fame, e alla folla che chiedeva il pane si sparò ad altezza d’uomo, provocando quasi cento vittime. Ma tutta Italia era percorsa da tensioni acute e laceranti, che a fine secolo si risolsero in durissimi scontri parlamenterai contro un governo che voleva abolire le più elementari libertà. Il presidente del consiglio era un generale, Luigi Pelloux, al quale certamente bruciava la vergognosa sconfitta di Adua, mentre il re perdeva ogni contatto con il paese reale, premiando un altro generale, Fiorenzo Bava-Beccaris, per aver difeso la civiltà con le cannonate contro cittadini inermi. E il re Umberto I, è noto, pagherà con la vita questa sciagurata decisione, ucciso a revolverate da un anarchico che aveva viaggiato dagli Stati Uniti per compiere quello che riteneva un dovere morale.
Ma l’Italia, quell’Italia, seppe afferrare il ciclo positivo dell’economia internazionale. Gli imprenditori italiani seppero approfittare di una domanda internazionale in grande crescita e applicare con successo le tecnologie provenienti dall’estero; con l’aiuto di capitali provenienti dalla Germania e dalla Francia si ricostituì il settore bancario, mentre le rimesse degli emigranti creavano un attivo tale nella bilancia dei pagamenti, che la rendita dei titoli pubblici sulle piazze estere scese dal 5 al 3.5% (come se oggi lo spread fosse vicino allo zero).
L’economia nazionale si rilanciava con un mix di prima e seconda rivoluzione industriale: con la formazione del triangolo industriale Milano-Torino-Genova – un processo che certo non si estendeva a tutto il paese – è tuttavia lecito parlare di “miracolo”. Naturalmente, alludiamo al linguaggio comune, a una metafora, perché in economia i miracoli non hanno luogo. Si tratta invece di accumulazione di risorse e capacità imprenditoriali, tecniche, scientifiche, culturali in senso lato, che si sedimentano nel medio-lungo periodo e che si trovano pronte all’appuntamento con la storia.
Si consideri Torino, che già nel 1900 veniva indicata come la capitale dell’industria automobilistica italiana. A Torino già dal Settecento operavano i migliori carrozzieri d’Europa; esisteva un Arsenale, fucina di lavoro specializzato; qui era attiva una classe dirigente desiderosa di investire nell’industria capitali da tempo immobilizzati nella terra, orientata a un pragmatico positivismo e che, mentre creava scuole per il lavoro professionale, era in grado di valorizzare un corso universitario di Ingegneria, supporto indispensabile per la produzione nuova: l’automobile.
Nelle vicende del “secondo miracolo” si rilevano alcune delle caratteristiche che hanno contrassegnato il primo. Il ventennio di dittatura, le macerie della guerra, l’umiliazione dell’8 settembre, una classe dirigente che nelle audizioni alla Costituente si dichiarava a grande maggioranza anti-industrialista, sicura che l’Italia avrebbe seguito la strada della piccola dimensione e dell’artigianato: tutto sembrava prefigurare un recupero quasi impossibile, o certamente molto faticoso dell’apparato industriale nazionale e dell’economia nel suo complesso.
Oltre la Ricostruzione, accadde esattamente il contrario: grazie all’apporto delle risorse finanziarie e della tecnologia provenienti dall’estero, si affermò anche in Italia la grande impresa, sia quella sorte nei settori già emersi all’inizio del secolo, sia quella capace di creare settori nuovi, come gli elettrodomestici.
È questa l’Italia che fa registrare una crescita del PIL superiore all’8% nel 1961, anno in cui si celebra il centenario dell’unità del paese.
Intanto il vecchio artigianato si industrializzava, i calzolai diventavano calzaturieri, i falegnami, mobilieri e i sarti, industriali dell’abbigliamento; si apriva quindi la fase della crescita delle economie territoriali integrate, dei distretti industriali.
Non dobbiamo certo credere che i protagonisti di queste “rinascite miracolose” spuntino all’improvviso.
Nel caso torinese, l’esempio più noto di continuità industriale del paese, la Fiat non dissipa le risorse accumulate durante la prima guerra mondiale in irrazionali tentativi di espansione. Quelle risorse sono indirizzate a completare il progetto di integrazione verticale dell’impresa e a costruire un nuovo stabilimento, il Lingotto, la fabbrica verticale che, quando è inaugurata, nel 1923, è considerata la più moderna in Europa. Con il Lingotto emerge una nuova coorte manageriale che, sotto lo sguardo, avido e severo, del senatore Agnelli, era di fatto guidata da Vittorio Valletta, il professore. Quelle competenze imprenditoriali, manageriali, tecniche saranno alla base del rilancio dell’impresa nel “miracolo” economico e della motorizzazione di massa nel paese.
Oggi non c’è un “triangolo industriale” a trainare la ripresa, ma un tessuto dinamico e variegato – un paese “arlecchino” – che annovera risorse e capacità non solo nei settori del made in Italy – tessuti/abbigliamento/calzature – ma anche nella meccanica, nella chimica e in numerose altre nicchie globali in cui imprese di dimensione media competono con successo sui mercati internazionali.
Il cosiddetto “quarto capitalismo” rappresenta il fattore di lungo periodo che può sostenere l’onere di un rilancio dell’economia del paese. Le leve che gli consentono di emergere sono quelle che hanno agito nel primo e nel secondo “miracolo”: competenze e capacità imprenditoriali e manageriali, contenuto tecnologico sulla frontiera globale, internazionalizzazione. Si tratta sovente di imprese che hanno avuto il coraggio di operare una necessaria sfamiliarizzazione della governance e che hanno bisogno di una classe dirigente capace di sostenerne la competitività attraverso un alleggerimento della burocrazia che ne condiziona le potenzialità.
Possiamo auspicare una ripresa – un terzo “miracolo” – solo se ancora una volta non verranno meno le forze profonde che hanno agito nelle fasi di ripresa e sostenuta crescita nel passato, quelle che hanno impedito un ripiegamento e una chiusura dell’Italia su stessa: le energie e le competenze imprenditoriali capaci di aprire il paese alle dinamiche dell’economia globale, che oggi significa prima di tutto valorizzare l’integrazione europea e poi non aver paura dell’inevitabile integrazione mondiale.
professore preciso e stimolante il suo intervento ma lei dimentica una cosa importante, i periodi da Lei indicati erano privi di burocrazia inutile e di politica di basso livello che proprio di burocrazia si nutre