Nel 1950 lo scrittore Giose Rimanelli andò da Cesare Pavese alla casa editrice Einaudi per presentargli il romanzo autobiografico Tiro al piccione e lo definì la storia di un giovane che aveva scelto di stare “dalla parte sbagliata”. Questa espressione è rimasta celebre. E ancora oggi si utilizza per riferirsi a quegli italiani – oltre mezzo milione, un dato non certo da poco, che spesso s’ignora – che vestirono una divisa, imbracciarono un’armi e, non di rado, si macchiarono di crimini orrendi al fianco dei nazisti, per il fascismo restaurato nell’Italia centro-settentrionale all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
Eppure, a settant’anni di distanza, se ci si discosta dalle polemiche politiche che ancora oggi divampano quando si rivanga una pagina dolorosa e nefasta della nostra storia nazionale come la guerra civile e l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana, sul piano prettamente storiografico ancora mancava una storia documentata e rigorosa sull’Italia e gli italiani in armi per Salò (che peraltro non fu né capitale né sede di governo del nuovo stato fascista, ma così passò alla storia poiché da lì partivano i dispacci dell’agenzia di stampa Stefani, che iniziavano appunto con luogo e data). Ed è proprio questo – L’Italia di Salò (il Mulino, pp. 490, euro 28) – il titolo del nuovo saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, due giornalisti e saggisti che sono approdati alla questione Rsi dopo anni di ricerche e saggi basati su fonti coeve, diari e lettere in primis, sulla Resistenza, gli Internati militari italiani, la persecuzione politica e razziale in quei drammatici anni.
Il libro ruota intorno a un ventaglio di interrogativi: quali furono le principali motivazioni che spinsero ad aderire alla Rsi, quale fu il collegamento ideale col precedente regime, quali aspettative si nutrivano nei confronti del nuovo fascismo, perché molti giovanissimi compirono quella scelta, che tipo di esperienza vissero sotto le armi, cosa sapevano della Resistenza e come la giudicavano, cosa percepivano e come metabolizzavano le stragi e le deportazioni razziali e politiche dei nazisti (alle quali molti di loro presero parte attiva), quanti ebbero ripensamenti e per quale motivo, chi rimase fedele alla causa fino alla fine e perché. “A questi interrogativi – scrivono Avagliano e Palmieri – risulta difficile se non impossibile dare risposte attraverso i documenti burocratici e istituzionali. Un’indagine significativa è invece possibile dal basso, cioè attraverso fonti coeve mai prima d’ora esplorate con ampiezza, sistematicità e in modo integrato: i diari e gli epistolari, la corrispondenza censurata e i Notiziari Z del servizio segreto fascista con migliaia di brani di lettere trascritti, i notiziari periodici delle Commissioni di censura, le relazioni, le informative e gli Appunti per il duce sullo spirito pubblico redatti dalle diverse autorità, forze di polizia, servizi segreti e uffici addetti alla propaganda, i notiziari della Guardia nazionale repubblicana (la milizia del ricostituito partito fascista), le note fiduciarie delle spie che agivano tra la popolazione e le forze armate, i testamenti”. Solo marginalmente infine, viene utilizzata la memorialistica successiva, “inquinata” dalle revisioni postume dettate dalla vergogna della sconfitta, dalla necessità di nascondere aspetti di quell’esperienza, dalle rivendicazioni nostalgiche e così via.
Ne è emerso un quadro complesso ma assai nitido nei suoi caratteri generali, che per la prima volta prende in esame anche pagine che erano andate quasi del tutto perdute nei meandri della memoria successiva di quell’esperienza, come l’esistenza di un fascismo clandestino oltre le linea alleate nelle regioni dell’Italia meridionale, l’adesione di migliaia di militari internati nei campi di concentramento nazisti dopo il disarmo al momento dell’armistizio e la ferrea volontà di non cooperare con gli Alleati da parte di migliaia di prigionieri degli anglo-americani, che continuarono a giurare fedeltà a Mussolini e ad organizzare cerimonie fasciste nei campi di detenzione, spesso scontrandosi duramente con coloro che avevano fatto una scelta diversa.
Il libro, infine, dedica ampio spazio a quella che fu definita “la marcia contro la Vandea” della Repubblica Sociale, vale a dire la partecipazione di tutte le forze armate di Salò – l’Esercito nazionale repubblicano, la Guardia nazionale repubblicana, le Brigate Nere, le bande autonome irregolari e le Ss Italiane – alla lotta antipartigiana e alla cosiddetta “guerra contro i civili”, vale a dire l’ondata di violenza indiscriminata e criminale che si abbatté sull’Italia in quei drammatici mesi, non solo per mano nazista. In definitiva, una pagina assai nera, che grazie a questa ricerca e a questo equilibrato e documentato saggio, ora appare per molti aspetti un po’ più chiara.