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L’Italia dal Piano Marshall al Recovery Fund: la differenza è nella leadership

Imagoeconomica

La recrudescenza del coronavirus non ci ha fatto certo dimenticare il nodo del Recovery Fund. Quando ci perverranno queste risorse – e non osiamo pensare che l’Europa, frugale o bon vivant, ci faccia scherzi – sarà necessario avere un piano dettagliato su come spenderle. Saranno forti le tentazioni di continuare nella pratica dell’helicopter money, in particolare se si procederà con la rimozione dolorosa ma, in tutta evidenza, necessaria del blocco dei licenziamenti.

Sarà necessario, dicevo, avere un progetto “forte”, coordinato nelle sue parti, un piano “sistemico” che non pecchi di short-termism, ma che non rimandi neanche a decenni futuri, perché, come è noto,”alla lunga saremo tutti morti”.

Il pensiero non può non correre agli anni del dopoguerra, quando, per risorgere, avevamo bisogno del Recovery Fund di quei tempi, ovvero dell’arcinoto e, a volte, sconsideratamente menzionato, Piano Marshall.

Ho usato l’avverbio “sconsideratamente” perché in più di un caso ho notato l’idea che fosse facile ottenere le risorse di questa gigantesca e lungimirante donazione da parte degli Stati Uniti. In realtà, le procedure previste per le forniture gratuite di merci e per i prestiti erano assai complicate.

Lo European Recovery Program (ERP) si articolava su tre livelli decisionali: a Washington venne costituita la Economic Cooperation Administration (ECA) che emetteva il parere finale; l’ECA operava nelle diverse nazioni con “missioni” che vagliavano le richieste coadiuvate da un comitato di esperti locali. A loro volta, le domande nazionali erano filtrate dall’Organizzazione Economica di Cooperazione Europea (OECE), con sede a Parigi.

Quanti in Italia venivano autorizzati ad acquistare merci negli Stati Uniti, ricevevano dollari dall’Ufficio Italiano Cambi, il quale in seguito veniva rimborsato dall’ECA con un corrispettivo in lire, il cosiddetto Fondo Lire, versato presso la Banca d’Italia.

È chiaro che, per superare questi sbarramenti, occorreva essere molto convincenti. Ebbene, fra il 1948 e il 1952, l’Italia ottiene un 1 miliardo e 470 milioni di dollari, l’11% del totale dell’ERP. Non male!

Ad avvantaggiarsene furono soprattutto coloro che durante i lavori della Costituente si erano pronunciati contro “l’Italietta autarchica e artigianale”, per la scelta del modello americano, per il pieno avvento delle produzioni di massa.

Non si può certo dire che chi sosteneva queste posizioni fosse un convertito dell’ultima ora. Il presidente della Fiat Valletta proseguiva la strada indicata da Giovanni Agnelli, il quale, ultrasettantenne, duramente toccato da tragiche vicende familiari, non esitò ad impegnare i profitti ottenuti con la guerra di Etiopia nella costruzione del grande stabilimento orizzontale di Mirafiori. Questo, nell’assetto produttivo della Fiat, doveva acquisire una posizione di leadership anche nei confronti del Lingotto, la fabbrica verticale che era la più moderna d’Europa quando venne inaugurata, nel 1923.

Del resto, il motto di Giovanni Agnelli era: “Fare come Ford”. L’altra grande beneficiaria dei Fondi ERP era la Finsider. Il suo presidente, Oscar Sinigaglia, aveva assunto questo ruolo nel 1945, a 68 anni, dopo una vita spesa in contrasti durissimi contro baroni ladri, speculatori, tradizionalisti soddisfatti del buon andamento della propria impresa, ma incuranti delle inadeguatezze di un settore cruciale per l’economia del paese.

La sua uscita da una condizione di minorità nel contesto internazionale poteva essere data solo dal vigoroso sviluppo dell’industria meccanica, alla quale l’acciaio forniva l’indispensabile materia prima.

Sin dal 1911, l’anno del salvataggio dell’intero settore siderurgico, per il quale la Banca d’Italia aveva stanziato risorse di non poco conto, Sinigaglia si era speso con competenza e disinteresse personale, contro i capi del cosiddetto trust, che volevano attenersi rigidamente al più chiuso protezionismo e agli accordi di cartello, fonte di guadagni senza rischi.

Sinigaglia conoscerà altri episodi di questo tipo, ma le qualità prima menzionate, la competenza, il disinteresse, il patriottismo, gli garantiranno un largo seguito di manager e tecnici che infine, negli anni Cinquanta, doteranno il paese di una siderurgia fiorente e aggiornata tecnologicamente.

Green economy, alfabetizzazione digitale di massa, approntamento di collegamenti ad altissima velocità, infrastrutture sociali: dietro questi campi, nei quali, presumibilmente si gioca il nostro futuro, c’è qualcuno che intravede imprenditori del calibro di Giovanni Agnelli, Vittorio Valletta, Oscar Sinigaglia, Adriano Olivetti, Enrico Mattei?

Il fatto è che, in un tornante così decisivo, non intravediamo neanche banchieri come Donato Menichella o Raffaele Mattioli, né “economisti utili” come Luigi Einaudi o, più di recente, Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Nino Andreatta, Giacomo Becattini.

Veramente, uno che è sia banchiere, sia economista, ci sarebbe, ed è l’uomo del whatever it takes, Mario Draghi, che potrebbe ricostruire un dream team come quello che guidava da Direttore generale del Tesoro; ma le intenzioni e la voglia di combattere di Draghi non è dato conoscere.

Intanto il tempo del piano per il Recovery Fund sta per scadere. Contiamo sulla competenza, a proposito di cose europee, e sul buonsenso del ministro Gualtieri, sulla tranquilla saggezza del commissario Gentiloni, sulla tecnostruttura di cui può avvalersi il governo italiano, sperando infine di potere esclamare: “Felice il Paese che non ha bisogno di eroi”.

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