La Fiom, dopo due anni di una offensiva giudiziaria senza precedenti scatenata nei confronti delle società del gruppo Fiat per la lamentata compressione dei suoi diritti sindacali, e sostenuta da una campagna mass–mediologica ausiliata dalla propaganda di alcuni mezzi d’informazione e dalla compiacenza partigiana di qualche giudice del lavoro, ha finalmente trovato la sua sponda nella Corte Costituzionale, riuscendo a far dichiarare l’incostituzionalità “politica” dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori in materia di nomina delle rappresentanze sindacali aziendali.
La norma dello Statuto è (o, per meglio dire, era) di chiara dizione letterale: rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite solo nell’ambito di associazioni sindacali che abbiano firmato contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
La situazione di fatto è altrettanto chiara: da gennaio 2012, dopo la sua uscita dal sistema confindustriale, l’unico contratto collettivo di lavoro applicato nelle società Fiat è, in sostituzione del contratto dei metalmeccanici, uno specifico contratto nazionale, il Contratto Fiat, sottoscritto da tutti i sindacati metalmeccanici nazionali ad esclusione della Fiom.
Come è noto, Fiom non ha voluto condividere né le intese intervenute tra Fiat e tutti gli altri maggiori sindacati per il rilancio produttivo degli stabilimenti italiani, né il nuovo Contratto Fiat, assumendo comportamenti aventiniani, sottraendosi al tavolo delle trattative, quando non anche palesemente ostili nei confronti di Fiat e degli altri sindacati.
Di tale libera scelta – ancorché non condivisa dalla larga maggioranza dei lavoratori – Fiom non ha per altro inteso accettare le conseguenze previste dall’ordinamento giuridico. L’art. 19 dello Statuto dei lavoratori infatti, come già evidenziato, obbliga le imprese a riconoscere una rappresentanza sindacale in azienda e a garantire una serie di diritti sindacali (particolarmente onerosi e vulneranti il processo produttivo) soltanto in favore dei sindacati che hanno stipulato i contratti collettivi applicati in azienda.
Il legislatore dello Statuto ha dunque inteso imporre alle aziende un anomalo obbligo di cooperazione alle attività delle organizzazioni sindacali solo se quest’ultime sono inserite nel gioco contrattuale. Il mancato riconoscimento nelle aziende Fiat dei diritti sindacali alla Fiom non è derivato dunque da una scelta aziendale antifiommina, bensì da una inequivocabile volontà legislativa espressa in modo assolutamente chiaro nel testo “referendato” dell’art.19 dello Statuto.
Va ricordato, al riguardo, che la dizione dell’art.19 è frutto di un referendum abrogativo, sostenuto tra gli altri dalla stessa Fiom, nel quale la sovrana volontà popolare (sic!) ha circoscritto il riconoscimento della rappresentanza sindacale aziendale e dei relativi diritti ai soli sindacati che accettano di “implicarsi” nella dinamica contrattuale, concorrendo a scrivere le regole che disciplinano diritti e doveri dei lavoratori, nonché la vita di fabbrica e l’organizzazione del lavoro. A questa logica Fiom si è volutamente sottratta, chiedendo ai giudici di ordinare alla Fiat la violazione di un preciso disposto normativo.
La richiesta della Fiom, dopo alterne pronunce giudiziarie, è stata ora accolta dalla Corte Costituzionale che, non volendo “politicamente” contrastare quello che si presume essere il più potente e rappresentativo sindacato italiano, ha ribaltato l’indirizzo che la stessa Corte aveva espresso nelle precedenti numerose decisioni sull’argomento, quando la questione di legittimità riguardava altri sindacati e secondo il principio che le leggi non sempre sono eguali per tutti.
La pronuncia della Consulta (emessa, con una celerità sospetta, il giorno dopo la discussione) collega ora il diritto a nominare le rappresentanze sindacali aziendali alla partecipazione alla negoziazione dei contratti collettivi poi applicati ai lavoratori nell’azienda, ma non necessariamente alla loro stipula e alla conseguente assunzione di responsabilità. In altre parole, vengono incentivati l’antagonismo e l’ingovernabilità nelle fabbriche, l’opposto di quanto i Padri Costituenti avevano auspicato con gli artt. 39 e 40 della Costituzione, peraltro mai attuati.
La sentenza è dunque un ennesimo esempio di quella “incertezza del diritto”, non solo destinata ad avere ripercussioni anche politiche sulle relazioni industriali e nei rapporti tra le stesse organizzazioni sindacali, ma sopratutto dannosa per gli operatori economici presenti ed un disincentivo per gli investimenti esteri. Toccherà ora al legislatore definire un criterio di rappresentatività più solido e più consapevole delle delicate dinamiche nelle relazioni industriali che dia certezza di applicazione degli accordi sottoscritti e garantisca la libertà di contrattazione e la libertà di fare impresa, come avviene nei paesi di normale democrazia nelle relazioni industriali.
Senza il rispetto delle regole definite, il Paese non solo continuerà a non essere in grado di attrarre investimenti dall’estero per dare vita a nuove attività, ma rischia di vedere evaporare anche quelle poche occasioni su cui il sistema produttivo può ancora contare: è questo l’avviso che Sergio Marchionne ha mandato all’Italia qualche giorno fa dalla Sevel di Val di Sangro, presentando il piano di investimenti nello stabilimento di oltre 700 milioni di euro (dopo quelli altrettanto rilevanti in questi ultimi due anni di Pomigliano, Grugliasco e Melfi) che rischiano di essere gli ultimi, se Fiat sarà costretta a continuare ad operare nel nostro paese in un quadro di totale incertezza normativa.