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Lingua italiana: come è nata e come si è sviluppata. Dal fiorentino all’influenza di tv e telefonino

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Dopo aver affrontato, nello scorso mese di settembre, in due post il tema dei dialetti della penisola, il glottologo Daniele Vitali ripercorre le tappe storiche cruciali che hanno portato alla nascita dell’italiano, una lingua che si parla e si comprende non solo nello stivale.

Si stima che nella sola Unione europea (446 milioni di abitanti) una 80na di milioni siano italofoni.
Se consideriamo l’intero pianeta gli italofoni salirebbero a 250 milioni. Nella sola Buenos Aires, in 62 scuole, l’insegnamento dell’italiano è curriculare. Oggi lingua indiscussa di comunicazione formale e informale, l’italiano ha percorso una lunga strada dall’originaria filiazione fiorentina fino all’odierna società dell’informazione e delle reti sociali. Vediamone il percorso con Daniele Vitali.

Le tre corone fiorentine

Quando a scuola studiamo la “questione della lingua”, ci viene spiegato che si trattò di una lunga discussione iniziata da Dante Alighieri col suo De vulgari eloquentia, in cui s’interrogava su quale fosse il volgare più adatto a fare da lingua comune dell’Italia, e poi da lui stesso avviata a soluzione scrivendo la Divina Commedia nel proprio idioma materno.
Ci viene poi detto che l’esempio dantesco di scrivere in fiorentino fu seguito da Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, e che i tre grandi autori del Trecento dettero un tale prestigio alla letteratura in fiorentino che questo cominciò ad essere adottato dagli altri autori italiani, nonché dalle cancellerie dei liberi Comuni e degli Stati preunitari.
Fu così che il “fiorentino” o “toscano” s’incamminò a diventare italiano: scrittori e poeti di tutto il paese, che nella vita quotidiana parlavano i dialetti, nelle opere si orientarono verso l’esempio dei tre grandi del Trecento.

La concorrenza e l’opposizione al fiorentino

Si prenda Ludovico Ariosto, nato a Reggio Emilia e poi trasferitosi a Ferrara alla corte degli Este: le prime edizioni del suo Orlando Furioso uscirono in una lingua settentrionaleggiante che, con terminologia un po’ fuorviante, viene chiamata “padano illustre”; l’edizione definitiva del 1532, invece, fu pubblicata in toscano. Si ebbe così la prima opera di un autore di altra origine nella quale il toscano è usato come lingua letteraria nazionale.
Ariosto era amico d’infanzia di Pietro Bembo, cardinale veneziano che nel 1525 aveva pubblicato le Prose della volgar lingua, in cui proponeva, per risolvere la questione della lingua letteraria degli italiani, di prendere a modello Petrarca e Boccaccio: questi erano preferiti a Dante e alle sue voci “rozze e disonorate” (ce l’aveva con certi passi dell’Inferno in cui si usano immagini crude per marcare la differenza col Paradiso e il suo linguaggio filosofico ed elevato; per saperne di più c’è la monumentale Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini).
La sottolineatura del modello letterario rappresentato dalle due restanti corone fu tale che Bembo condannò anche l’uso del vivo fiorentino del suo tempo, arrivando a dire che, per scrivere bene in italiano, era meglio non essere toscani, in una chiara condanna delle evoluzioni linguistiche subite dalla lingua parlata nei due secoli trascorsi (contribuì anche la sua già illustrata antipatia per l’esistenza di diversi piani della lingua: era pur sempre un autore prescrittivo, che stava cercando di affermare un modello alto).

Il contributo del Manzoni: l’italiano insegnato nelle scuole

Con un salto in avanti troviamo la posizione molto diversa di Alessandro Manzoni il quale, per scrivere I Promessi Sposi, andò a “sciacquare i panni in Arno”. L’autore, che parlava milanese e francese, si era trovato in difficoltà nello scrivere in italiano l’edizione del 1827 e, nello stesso anno, si recò dunque a Firenze per ascoltare l’uso vivo di quella città e volgere il proprio romanzo in un linguaggio meno artificioso: la nuova versione uscì nel 1840 e, come sappiamo, occupa un posto importante nella storia della letteratura e della lingua italiana (se poi “que’ birboni” in bocca a popolani lombardi del Seicento non sia artificioso è questione che lascio al giudizio del lettore).
Manzoni era scontento del linguaggio usato nella prima edizione perché vedeva i limiti di uno stile letterario codificato nel Trecento; inoltre, si rendeva conto di non maneggiare appieno quello stile, tanto che era stato costretto a consultare un vocabolario milanese-italiano e uno francese-italiano. Insomma, aveva scritto in una lingua non sua e che, per di più, non era di nessuno: decise così d’imparare il fiorentino dalla bocca dei suoi parlanti nativi, per poterne usare la versione a lui contemporanea.
la scuola pubblica. Il contributo manzoniano alla questione della lingua continuò con una relazione inviata nel 1868 al ministro per l’Istruzione del giovane Regno d’Italia, in cui l’autore trattava dell’insegnamento dell’italiano nelle scuole statali.
La scuola, volta ad alfabetizzare un popolo che nell’Ottocento era in gran parte composto da poveri diseredati e nel Novecento da contadini che stavano diventando operai, ha fatto naturalmente da veicolo fondamentale per la diffusione dell’italiano, poiché non era possibile mandare tutti a Firenze a fare il bucato. Così, gli alunni dell’intero paese, come già prima di loro avevan fatto nobili, religiosi, borghesi agiati, letterati e cancellieri, impararono l’italiano tramite la filiera scritta, ed è stato ciò che ci ha dato il cosiddetto “italiano regionale”.

L’italiano regionale e provinciale

Per italiano regionale s’intende un italiano abbastanza unificato a livello scritto, ma colorato dai dialetti locali a livello parlato. Si tratta di un altro termine invalso ma un po’ impreciso poiché, date l’organizzazione scolastica e le tendenze della mobilità di un tempo, abbiamo in realtà diversi tipi di italiano provinciale.
Si crede ad esempio che ci sia un italiano regionale emiliano: in realtà l’orecchio esercitato sa riconoscere se stia parlando un bolognese o un modenese, un parmigiano o un piacentino, un ravennate o un riminese ecc. Vale anche per i toscani: gli abitanti del resto d’Italia pensano che parlino tutti “mangiandosi la ci” e si sorprendono nel vedere che loro sanno distinguere chi è fiorentino da chi è lucchese, e così via.
Si è così avuto l’apparente paradosso per cui la scuola italiana ha tenuto a battesimo un linguaggio tra i più vari nell’uso orale pur essendo, almeno fino a qualche tempo fa, del tutto prescrittiva circa l’uso scritto (la mia generazione ha fatto in tempo a sentire, da maestri elementari formatisi durante o subito dopo il fascismo, che non si può “creare un prodotto” perché l’unico creatore è Dio, che “a me mi” o “ma però” sono gravi errori in quanto ripetizioni, che i sostantivi vanno sempre accompagnati da aggettivi, per cui non si dice che un canarino “vive in gabbia” ma “dimora in un’elegante gabbietta”, e scemenze del genere).
Ciò è successo perché per insegnare l’italiano a milioni di persone in contemporanea era impossibile inviare non solo gli allievi, ma anche i maestri a immergere metaforici abiti in un fiume (visti i risultati a livello stilistico, verrebbe quasi da dire per fortuna).

Il ruolo di televisione e telefonino

Intanto i tempi sono nuovamente cambiati. Diventato la lingua materna di grandissima parte della popolazione, e creatosi un dibattito politico e culturale nazionale, l’italiano ha preso una fisionomia propria capace di mutare lungo linee che non sono più stabilite dalla scuola, ma dalla televisione.
Se n’è parlato trattando della questione degli anglicismi, o di come e in che direzione stia cambiando la lingua, qui si potrà aggiungere che, nella trasformazione sempre più rapida, l’italiano delle nuove generazioni si sta unificando anche a livello fonetico, così che sta nascendo qualcos’altro, di portata geografica più vasta: i giovani sono ancora riconoscibili per macroarea (del Nord, del Centro, del Sud, sempre meno in base alla regione o alla provincia), ma fra i giovanissimi si nota l’imitazione dei modelli cui guarda la loro fascia d’età. Conosco una ragazza preadolescente della campagna bolognese che, a forza di ascoltare Fedez su Instagram, parla con accento lombardo, con la costernazione del padre.

Milano e Roma

È presto, però, per fare previsioni: se quella ragazzina imita Milano a causa delle reti sociali, fra gli strati adulti e anziani della popolazione il punto di riferimento è ancora la televisione, e non va dimenticato che Cinecittà si trova a Roma.
Mentre i film americani sono interpretati da doppiatori nel cui accento ancora prevalgono alcune caratteristiche romane sul mascheramento di neutralità imparato al corso di dizione (penzo, la bbarca, Luiggi, llà), le produzioni originali della TV pubblica, poco bembianamente denominate RAI Fiction, fanno ricorso così preponderante ad attori e ambientazioni romane che il romanesco è diventato in un certo senso “il dialetto d’Italia”: abituati dal piccolo schermo alla commistione di codici italiano/romanesco, gli altri italiani sempre più digiuni dei propri dialetti d’origine vi ricorrono quando pensano sia il momento di fare “un’uscita dialettale”.

Il neo-romanesco

Staremo a vedere, per il momento segnalo che procede in questo modo persino il venezianissimo filosofo Massimo Cacciari, e che a usare il romanesco non sono solo le produzioni a basso costo che si vorrebbe favorissero la cultura nazionale di fronte all’invasione d’oltreoceano, bensì anche una trasmissione di attualità politica come Propaganda Live su LA7.
Ciò si spiega ovviamente, oltre che col concetto che Roma ha di sé in quanto capitale, con la trasparenza del romanesco odierno (alcuni infatti lo vorrebbero chiamare “romano” o “neoromanesco”, ritenendo che la sua italianizzazione attuale abbia ormai reciso il legame col dialetto di Belli e Trilussa). In controtendenza, Zerocalcare è stato criticato proprio per il suo uso linguistico: “Ma insomma, tutto quel romanesco, non si capisce!”.
Chissà perché quest’incomprensibilità vale solo per i cartoni animati di critica sociale, e non per i polpettoni nazional-popolari con preti, portinai e carabinieri.

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