Ce n’eravamo quasi dimenticati ma sta tornando. Il tasso di inflazione a novembre è salito al 6,1% negli USA e al 4,9% nell’Eurozona, livelli che non si vedevano dai primi anni Novanta e che si collocano ben oltre quel magico 2% divenuto l’obiettivo implicito o esplicito della politica monetaria. Le banche centrali sulle due sponde dell’Atlantico hanno per mesi sostenuto all’unisono che la ripresa dell’inflazione era un fenomeno temporaneo, tale da non far risalire le aspettative di inflazione al di sopra della zona obiettivo. Insomma, c’era consenso sul fatto che il fenomeno fosse uno schizzo temporaneo dovuto ai colli di bottiglia produttivi che si erano manifestati in corrispondenza della ripresa vigorosa innescata dalle politiche monetarie e fiscali ultra-espansive in riposta allo shock pandemico. Il consenso si è rotto di recente quando, dopo essere stato confermato alla presidenza della Fed, Powell ha ammiccato che questa inflazione non sarà solo uno schizzo temporaneo, ma qualcosa di più. Al contrario, da Francoforte la BCE continua a usare toni più rassicuranti. Chi ha ragione? E che cosa si può intravedere dietro la curva?
La cosa più strepitosa che si osserva è che il passaggio da un rischio deflazione nell’Eurozona (da un’inflazione interamente sotto controllo negli USA) a un livello di inflazione ben oltre l’obiettivo si è realizzato nello spazio di un mattino. Infatti, nella seconda metà del 2020 il tasso di inflazione si collocava introno all’1,5% negli USA e leggermente al di sotto dello zero nell’Eurozona. Ebbene, in tutti i casi in cui l’inflazione è poi sfuggita al controllo – si pensi agli anni tra il 1973 e il 1983 – è possibile riscontrare una fase in cui, nonostante l’accelerazione dell’inflazione, le banche centrali continuavano a sostenere che la dinamica dei prezzi fosse sotto controllo. Quindi ha ragione Powell? Sì e no. Sì perché, in effetti, un’inflazione oltre il 6% morde il carrello della spesa e tende a innescare revisioni al rialzo dell’inflazione attesa. Forse no, invece, per altri motivi più remoti che proverò a spiegare con parole semplici.
Il brusco crollo del PIL nei primi mesi della pandemia era il frutto di due dinamiche congiunte e contrapposte. Da un lato, il lockdown limitava la capacità di spesa delle famiglie (sebbene veloce, il passaggio dagli acquisti nei negozi tradizionali agli acquisti digitali non è stato completo e non lo sarà a lungo ancora) spingendo l’inflazione al ribasso. Dall’altro, le limitazioni sul fronte della produzione nelle forniture locali e lungo la catena del valore globale – ove il riaddensarsi di frontiere prima diventate labili provocava nuove frizioni – sostenevano la dinamica dei prezzi. È evidente che nel 2020 il primo fattore ha dominato sul secondo raffreddando molto l’inflazione.
Nel 2021, invece, pur essendosi attenuato l’effetto inflattivo dovuto ai limiti alla produzione – che si stavano rarefacendo – il brusco rimbalzo della domanda dei consumi, unito alla ripresa degli investimenti, ha riacceso la dinamica dei prezzi. È ragionevole prevedere per il prossimo futuro l’ulteriore attenuarsi dei limiti alla produzione mentre anche il boom di domanda potrebbe ritracciare al ribasso, anche in ragione delle nuove ondate pandemiche. Perciò le relative spinte al rialzo sui prezzi potrebbero anche esaurirsi rapidamente.
Questa nota piuttosto ottimista, ovviamente, varrà solo se aspettative di inflazione strutturalmente più elevate non avranno il tempo di radicarsi nella mente degli operatori economici e in eventuali meccanismi di indicizzazione dei salari e degli altri costi di produzione. E, da questo punto di vista, la situazione potrebbe differire sulle due sponde dell’Atlantico per il fatto che le politiche fiscali sono oggi molto più espansive negli USA che nell’Eurozona. Ultimo tassello, tale contesto maggiormente pro-inflazione potrebbe portare la Fed a innalzare i tassi di interesse in funzione di raffreddamento della dinamica dei prezzi, mentre la BCE potrebbe restare disancorata da quell’aumento dei tassi di interesse, con un grande sospiro di sollievo per quei Paesi membri dell’Eurozona, Italia inclusa, gravati da elevati oneri del debito.