Ci sono voluti 15 anni all’industria della musica per tornare a vedere il segno positivo di fronte ai propri conti. Oggi però il valore dell’industria musicale è ancora la metà di quello che era nel 2000. Due dei maggiori studiosi dell’economia digitale, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee della Sloan School of management del MIT, hanno spiegato bene questo fenomeno iniziato agli inizi degli anni duemila: mentre i consumi musicali diventavano un razzo appena lanciato, i ricavi dell’industria sembravano invece uno che non aveva più carburante, cadevano come foglie morte. Non si era visto mai niente di simile nelle economie di mercato moderne, dove un aumento dei consumi aveva sempre incrementato i ricavi e la ricchezza. Era successo che l’ecosistema della musica, costituitosi nell’epoca d’oro dei mass media, non aveva saputo comprendere e rispondere adeguatamente alla napsterizzazione del mercato, cioè al cambio delle abitudini di consumo, di comportamento e di preferenze dei consumatori di musica.
Qualcosa di analogo sta avvenendo nell’industria del libro con la neftlixizzazione dell’industria culturale nel nuovo scenario digitale. Qui, piuttosto che una divaricazione radicale e assurda tra consumi e ricavi, assistiamo a una stagnazione e addirittura a una contrazione del consumo di libri. La faccenda è quindi ancora più grave.
UNA SFIDA QUASI PERDUTA
L’editoria libraria sta perdendo la sfida lanciata dai media pavloviani per la conquista del tempo libero dedicato all’intrattenimento e all’istruzione sui nuovi media, che stanno diventando i media tout court. E ce ne sarà sempre di più di questo tempo “non lavorativo”, con l’avvento dei robot. Figuriamoci quando inizieranno a leggere anche loro. A Quel punto ci sarà uno spazio siderale per la lettura e la scrittura. Succede, quindi, che la gente legga sempre di più, ma non libri. Sapevano che i nuovi media avrebbero portato a una frammentazione del consumo culturale a seguito della estensione, diversificazione, abbattimento delle barriere d’ingresso e abbondanza dell’offerta, ma era difficile immaginare che una istituzione secolare come il libro ne avrebbe sofferto così tanto, soprattutto per mancanza di innovazione.
Non abbiamo bisogno del Pew Center per sapere che il pubblico passa parecchio più tempo su Netflix che sulle pagine di un libro. Su Netflix paga un biglietto di 7,90 euro al mese per una quantità gargantuana di contenuti, mentre in libreria paga almeno 15 euro per una novità (dico una) e mica è meglio di “Crown” o di “High Castle”! Gli editori e gli autori continuano a lavorare come se non fosse successo nulla. Gli unici a capirci qualcosa sono quelli di Amazon che, di conseguenza, navigano a vele spiegate in mezzo a un mare di rottami, tra cui anche il Titanic di Barnes & Noble.
UN LIBRO COMPETE CON TUTTI GLI ALTRI MEDIA
Nel lontano 2014 lo staff di Amazon scriveva, tra la derisione e l’ostilità generale, quello stesso scherno patito da Churchill quando nel 1933 tuonava, come un temporale estivo, contro la minaccia mortale del nazismo.
Scriveva il Kindle team sul proprio blog nel luglio del 2014.
“Bisogna non dimenticare che i libri non competono soltanto con i libri. I libri competono con i videogiochi, la televisione, i film, Facebook, i blog, i siti gratuiti di notizie e altro ancora. Se noi vogliamo sviluppare una sana cultura della lettura dobbiamo adoprarci seriamente perché i libri possano competere con questi altri tipi di media”.
Lo stesso Steve Jobs, nel lanciare l’iPad nel 2010, aveva lucidamente descritto il nuovo scenario nel quale si sarebbe trovata l’intera industria culturale con l’avvento dei nuovi media. Aveva detto:
“Una volta i media erano separati, ciascuno era per conto suo sul proprio canale di distribuzione. Un contenuto competeva solo con un contenuto affine. Oggi tutto è cambiato. Tutti i media sono insieme e competono nello stesso ambiente: uno schermo connesso a Internet”.
Ed è proprio questo il punto.
A dircelo è il successo incredibile degli audiolibri, un libro in altra forma attraverso cui gli autori stanno finalmente iniziando a sperimentare nuovi format di racconto e di narrazione per andare incontro alle nuove abitudini di consumo dei prodotti culturali. Nel libro e nel suo clone, l’ebook, non si vede niente del genere, non c’è alcun tentativo di innovare il contenuto; piuttosto si reiterano le forme storiche di questo mezzo come se il mercato fosse ancora quello dell’epoca d’oro dei mass-media. Si capisce che non è una cosa semplice innovare un contenuto creativo storicamente sedimentato nell’immaginario collettivo. Così come non è bere un bicchier d’acqua, l’atto di operare una rimediazione a fronte di un cambiamento tecnologico le cui conseguenze sono tutt’altro che tecnologiche. Il tempo dell’attesa però è finito. Qualcosa deve essere fatto e alla svelta.
Ma vediamo quello che è successo nell’economia del libro, ed è successo qualcosa di davvero crudele.
IL BRUTALE QUINQUENNIO 2012-2017
Nel 2017 è successo che sono mancati i grandi bestseller che come sappiamo sono diventati, ahimè, il motore dell’industria culturale. Dal 2012 ad aggravare il quadro negli Stati Uniti, mercato più predittivo, la fiction ha perduto il 23% del proprio valore di mercato. A evitare una flessione ancora più cruenta sono stati i libri su Trump e intorno a Trump. Il presidente americano si rivela sempre più una manna per gli affari. Per altri aspetti non saprei, ma per il business l’effetto Trump è ciclopico. Forse sono le storie del controverso ex-magnate del mattone la fiction che funziona di più in questo momento. In tal caso il sottile confine tra fiction e realtà si è totalmente annullato. Questo annullamento, del resto, è la tendenza dominante del mondo contemporaneo.
Jonathan Franzen, uno delle migliori espressioni della fiction letteraria, ha rilasciato una lunga intervista al New York Times Magazine in cui parla del momento difficile che la sua professione sta attraversando. Ci occuperemo ampiamente di questa intervista in un prossimo post, perché Franzen è il portabandiera del partito dei tecnoscettici e non perde occasione per rimarcare quanto nefasta sia la tecnologia nelle sue espressioni attuali. Quello che ci interessa qui sono le sue rivelazioni sulla ricezione da parte del mercato dei suoi libri. Dal 2001 le vendite dei suoi romanzi sono andate a picco, nonostante vi sia stato una sorta di crescendo rossiniano nel gradimento dei suoi lavori da parte della critica e del pubblico del romanzo letterario.
Il suo romanzo del 2001, Le correzioni, ha venduto 1,6 milioni di copie. Libertà, pubblicato nel 2010 e definito un capolavoro dal critico letterario del New York Times, ha venduto la cospicua quantità di 1,15 milioni di copie. Il suo ultimo lavoro, Purtity, uscito nel 2015 e osannato dalla critica, ha venduto 255.476 copie. Per di più l’annunciata riduzione televisiva del romanzo, programmata da Showtime con Daniel Craig nella parte del protagonista, è in stallo. Franzen ci tiene a farci sapere che, differentemente da quanto gli succede, non è neppure arrabbiato per quello che sta accadendo, è semplicemente rassegnato.
Franzen non ha alcuna difficoltà a riconoscere che adesso i grandi momenti culturali scorrono più spesso su uno schermo che sulle pagine di un libro. Dopo aver visto e rivisto “Breaking Bad” ha compreso “how great TV works” per la narrazione delle storie. Adesso Franzen è un consumatore avido della farsesca serie HBO “Silicon Valley” che racconta le storie e i comportamenti di un gruppo di nerd raccolti intorno a Pied Piper, una improbabile start-up, che ha sviluppato un innovativo algoritmo di compressione.
Alex Shephard, uno dei più perspicaci osservatori dell’industria culturale, ha commentato così i numeri dei libri di Franzen “Le vendite dei libri di Franzen stanno calando perché l’epoca dei romanzi che vendono milioni di copie è finita per sempre”. Ecco un bel problema per tutto l’ecosistema del libro.
L’INABISSAMENTO DEI RICAVI DEGLI AUTORI
Occupiamoci adesso di quello che succede in altro contesto che costituisce un’altra cartina al tornasole proprio per la sua prossimità a quello americano, il Regno Unito, il cui mercato del libro vale 4,5 miliardi di dollari. Il Guardian riferisce che l’ultimo rapporto dell’Authors’ Licensing and Collecting Society (ALCS), un’associazione che tutela gli interessi degli autori, segnala il preoccupante impoverimento degli scrittori professionisti britannici. Non è che sia una novità, già i precedenti rapporti dell’ALCS lamentavano questo trend. La faccenda prende un rilievo diverso alla luce delle statistiche nel medio-lungo-periodo.
L’indagine del 2017, che ha coinvolto 5500 professionisti della scrittura, registra che i loro ricavi hanno subito una flessione del 43% rispetto al 2005. Infatti il reddito medio annuo dei professionisti dalla scrittura ammonta a 10mila cinquecento sterline quando nel 2005 sfiorava le 14mila sterline. Si tratta di un valore economico, già modesto nel 2005, ma che adesso si attesta ben al di sotto del reddito annuo minimo stimato nel Regno Unito, dalle agenzie specializzate, in 18mila sterline. Stando a queste valutazioni la paga oraria di uno scrittore professionista nel 2017 è stata di di 5,73 sterline. Frustrante, vero? Siamo nella piena area di povertà. Forse Ken Loach ci sta già pensando per un suo nuovo film. Non sono stati i robot a impoverire gli scrittori, ma la grande frammentazione del mercato dovuta all’azione della rete e al cambio di abitudine dei consumatori dell’industria culturale.
La società degli autori britannici ha criticato aspramente gli editori e Amazon per non avere condiviso equamente i ricavi con gli autori a fronte di una crescita dei fatturati a partire dal 2005. Ma la spiegazione non è così semplice come additare uno Smerdjakov di turno. Le ragioni sono più strutturali e gli autori dovrebbero iniziare a riflettere sul nuovo stato delle cose.
Il generale fenomeno della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza che si sta verificando nelle economie terziarie, sta agendo anche nell’ecosistema dell’editoria Pochi autori bestseller realizzano enormi guadagni, mentre per gli altri restano risorse marginali da distribuire. Un fenomeno che impedisce ai nuovi talenti di emergere e appiattisce l’offerta di contenuti. La bestseller economy dell’industria del libro rischia di marginalizzare ulteriormente la forma libro spingendo gli scrittori a rivolgersi verso altri e meglio retribuiti sbocchi o a entrare nel gioco dell’imitazione dei bestseller, invece di sviluppare idee e contenuti originali. Nella grande maggioranza dei casi, la scrittura di libri sta diventando, proprio per il deficit di risorse, un’attività di supporto, ancillare e promozionale ad altre attività più cospicuamente retribuite; sta diventando una sorta di componente di un marketing mix volto ad accrescere la reputazione e la conoscenza del proprio brand. Un libro è una grande arma per costruire un brand.
BARNES & NOBLE, TROPPO IMPORTANTE PER FALLIRE?
Arriviamo alla terza e deprimente cattiva notizia. A Barnes & Noble succederà quello che è successo alla gemella Toys ‘R’ Us? Cioè il fallimento?
Lo scorso giugno Demos Parneros, il quarto amministratore delegato di Barnes & Noble in appena cinque anni, è stato licenziato senza indennità dal CDA del gruppo. L’uscita dalla crisi della più grande catena di librerie del mondo sembra un rompicapo irrisolvibile, malgrado tutto il mondo dell’editoria si auspichi che questo succeda al più presto, perché Barnes e Noble è l’ultima decisiva fortezza prima della resa all’e-commerce, uno spazio che né i grandi editori, né i grandi autori controllano. Per questo Barnes & Noble, al pari delle grandi banche d’affari nel 2008, è considerata troppo grande e troppo importante per l’ecosistema del libro per fallire senza provocare una crisi sistemica.
La crisi del gruppo non è solo finanziaria, è soprattutto identitaria. I ricavi sono in costante discesa, il management non ha un piano differente da quello di chiudere negozi, licenziare librai esperti e aprire nuovi punti vendita dal concept incerto. Manca una strategia in grado di riportare stabilità nei conti e nell’operatività. Il valore azionario, che prima della crisi del 2008 era superiore ai 20 dollari ad azione, oggi sfiora i 5 dollari.
Dopo la chiusura di Toys ‘R’ Us, che ha lasciato uno spazio di mercato da colmare nel quale avrebbe voglia di buttarsi Barnes & Noble, sembra essere caduta in disgrazia l’idea di Parneros di modellare i negozi della catena sullo schema della libreria indipendente, che conosce un’inattesa rinascita, con personale che ne capisce di libri e un radicamento robusto nel territorio, abbondando l’idea, caldeggiata dai suoi predecessori, di creare dei gift shop con aree per la ristorazione, per i drink, per l’esposizione di cancelleria, giocattoli, apparecchi elettronici e altro ancora. Insomma ad essere in discussione è proprio l’identità del gruppo che è da troppo tempo esposta a repentini cambi di rotta.
Alcuni investitori stanno chiedendo a Barnes & Noble di tornare privata, cercare capitale privato, ristrutturarsi e poi tornare pubblica al momento opportuno. Una strada che Dell ha percorso con successo arricchendo oltremodo il suo fondatore, Micheal Dell, ma che è stata fatale a Toys ‘R’ Us. Data l’età di Riggio, il fondatore di Barnes & Noble, non c’è nessuno che possa svolgere un ruolo decisivo come quello di Michael Dell, cioè traghettare la barca oltre lo Stige senza perdere tutto il carico. E sembra questo il destino della catena. Alex Shephard concludendo un suo commento sulla crisi di Barnes & Noble scrive:
“Per il momento ogni cambiamento è lungi da venire. Barnes & Noble ha a che fare con un problema più grande e più intrattabile: il caos. Ha subito una serie di fallimenti e visto l’insuccesso degli amministratori che dovevano risanarlo. La sfida adesso è trovare la cosa che è mancata per troppo: non il successo, ma la stabilità”.
Tutti glielo augurano.
COSA FARE? MARKETING E INNOVAZIONE DI CONTENUTO
Un punto fermo però esiste in questa odissea. I libri continuano ad essere importanti nella dieta mediatica della gente e continueranno ad esserlo anche in futuro. Lo saranno ancor di più in un mondo sempre più complesso, frammentato e inspiegabile con le categorie di pensiero, che hanno guidato la comprensione della realtà che ci circonda. C’è ancora un pubblico che li vuole, li cerca ed è pronta ad accoglierli a fianco delle serie e dei film di Netflix.
Il primo compito è quello di adattare i libri ai nuovi tempi e farli conoscere al pubblico, cosa che non può più avvenire con mezzi e strategie tradizionali, inadatte al ciberspazio. Quindi gli editori e gli autori devono fare i conti e sviluppare due attività che non gli sono state mai troppo congeniali, il marketing e l’innovazione di prodotto. La prima cosa da interiorizzare e metabolizzare è, però, che Amazon né è il nemico, né il problema, né parte del problema. Come risponde Bezos a chi critica Amazon “il problema degli editori non è Amazon, è il futuro”.
Come vedremo in un prossimo post c’è chi già sta facendo qualcosa per il futuro. Ed è proprio questa l’unica notizia positiva sotto il sole estivo.