Non è un libro di economia. E’ un saggio di politica, o meglio di cultura politica. La nuova opera di Antonio Calabrò, ex vice direttore de Il Sole 24 Ore ed attualmente direttore della Fondazione Pirelli, intitolata in maniera quasi provocatoria “L’impresa riformista” (Bocconi Editore) in questi giorni in libreria, è in primo luogo una sfida ai tanti luoghi comuni che stanno immiserendo il dibattito pubblico, diffondendo paure ed incertezza verso il nostro futuro individuale e collettivo, e scatenando rancore ed odio verso presunte “caste” che hanno badato solo ai loro interessi a danno di quelli del popolo. Un racconto, quello dei populisti, che certo contiene qualche briciolo di verità, ma che nel complesso induce a pensare che esistano soluzioni facili a problemi complessi, che spinge numerosi cittadini a guardare con nostalgia ad un passato ritenuto bello e sicuro anche se così non è mai stato, fino ad arrivare a convincerli che sarebbe giusto rinunciare a molte delle nostre libertà democratiche in nome di una maggiore sicurezza.
Calabrò mostra che non solo esiste una risposta diversa alle nostre paure, ma che questa è più conveniente per la collettività nel suo insieme e anche per i singoli cittadini. Il cuore del suo ragionamento è l’impresa,in particolare quella manifatturiera, che già oggi è una realtà di eccellenza ma che stenta ad essere riconosciuta come tale da tanti connazionali sviati da una informazione quantomeno distratta, e da politici populisti che accentuano le negatività del nostro sistema (che certo ci sono), per alimentare un sordo rancore verso tutti quelli che hanno avuto successo grazie alle loro competenze e ai loro meriti. Il risultato, e lo si può scorgere già con chiarezza dopo pochi mesi di governo giallo-verde, è tragico. Abbiamo una politica incapace di valorizzare i nostri punti di forza, che immagina di lavorare per favorire il popolo, fregandosene dell’Europa, del ricatto dello spread, dei banchieri, e finisce per ostacolare l’innovazione ed il lavoro, condannando il paese ad una eterna stagnazione. Si realizza così quella “decrescita felice” che però stando a tutti i sondaggi, gli italiani non ritengono affatto felice e non vogliono assolutamente.
Un libro di cultura politica, si diceva. Ed infatti Calabrò ci guida in un ben disegnato percorso lungo il quale incontriamo gli aspetti più positivi della nostra realtà economica e sociale e possiamo trovare conforto nelle analisi e nelle indicazioni di molti scrittori, economisti e politici che hanno visto per tempo le questioni reali, anche se spesso non sono stati ascoltati. L’impresa deve avere piena consapevolezza di essere il fondamentale protagonista della nuova stagione di cambiamento. Già oggi, dopo la grande crisi, siamo la seconda potenza manifatturiera dell’Europa, dopo la Germania. Abbiamo un volume di export che lo scorso anno ha superato i 450 miliardi, in grandissima parte per merito della nostra manifattura. Ma soprattutto molte aziende negli ultimi anni hanno fatto non solo un salto tecnologico e manageriale, ma anche rafforzato i propri valori fondanti di comunità di persone che agiscono sia per conseguire il massimo profitto, sia per costruire un rapporto di collaborazione con i propri dipendenti e per consolidare ed esportare la propria cultura aziendale al di fuori della fabbrica. Insomma l’impresa è non solo uno dei pochi ascensori sociali rimasti, ma anche, e sempre di più, un insieme di valori e di cultura che deve tendere a contagiare l’intero paese.
In questo senso l’impresa è e deve continuare ad essere, soggetto politico e cioè un attore forte nella società con la quale attiva un intenso scambio di valori e culture. I valori dell’impresa, quali il merito, la competenza, la concorrenza, il mercato come insieme di regole, la fiducia nella scienza e nell’innovazione, devono poter essere trasmessi al corpo sociale nella convinzione che questi siano vantaggiosi per l’intero sistema. Ma dalla società le imprese devono poter recepire le aspirazioni alla massima trasparenza, quelle dell’ambientalismo non ideologico ma basato su una realistica aspirazione al miglioramento della qualità della vita, quelle della sicurezza del lavoro e sul posto di lavoro. In questo senso l’impresa è soggetto politico autenticamente riformista, non nel senso che la Confindustria debba trasformarsi in un partito, ma in quanto attore responsabile di indicare al sistema politico culture e percorsi più convenienti per lo sviluppo dell’intera società. E gli imprenditori stessi non possono tardare oltre a prendere piena consapevolezza che la loro responsabilità si deve esercitare anche al di fuori dai cancelli della fabbrica. Non tutti all’esterno accoglieranno con gioia queste idee. Ma non bisogna ritrarsi per paura della battaglia, anzi proprio quando maggiore è il pericolo tanto più forte deve essere l’impegno.
Non ci si deve vergognare di dar vita ad un partito (nel senso culturale e sociale, non strettamente politico) del PIL, e cioè della crescita e delle riforme. Certo la crisi dell’ultimo decennio ha posto in tutto l’Occidente il tema della necessità di riformare e rifondare le società liberali se vogliamo farle vivere, ma la strada di questa rifondazione è già tracciata. Le imprese sono all’avanguardia di questa trasformazione. Stanno attuando uno sforzo continuo per adeguare la loro cultura al nuovo. I rapporti con i dipendenti stanno cambiando. La qualità della produzione e dei prodotti è in cima alle preoccupazioni. La straordinaria mobilitazione degli imprenditori di tutto il Nord contro il blocco delle grandi opere, a cominciare dalla TAV, e contro una politica sempre più statalista e disattenta alle ragioni delle imprese che stanno sul mercato, può essere il primo passo per la diffusione nella società di una idea diversa di crescita e benessere sociale.
Dobbiamo saper convincere cittadini e politici che “il mercato non è un demone” come ha scritto l’ex direttore de Il Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, ma anzi se ben regolato protegge i risparmiatori e favorisce il rafforzamento delle imprese. Proprio il contrario di quanto mostrano di pensare Salvini e Di Maio. In definiva dobbiamo cambiare la percezione eccessivamente negativa che abbiamo di noi stessi. Dobbiamo valorizzare le eccellenze e tra queste Calabrò (un siciliano diventato milanese) non poteva non chiudere la sua cavalcata raccontando il caso Milano, la rinascita della città e l’esempio che può rappresentare per l’Italia intera.