Tra le grandi piazze finanziarie, la City di Londra è quella che più di altre sembra in cerca di una nuova identità per adattarsi all’evoluzione dello scenario geopolitico mondiale. Una caratteristica che accomuna le grandi piazze finanziarie globali è quella di essere innanzitutto le principali sedi degli scambi per la regione o il continente su cui insistono: New York è la più importante piazza finanziaria del Nordamerica, come Hong Kong, Tokyo e Singapore lo sono per l’Asia. Alla City di Londra però il ruolo di principale centro di scambi finanziari per l’Europa sembra andare stretto.
Questo dipende anzitutto dalla collocazione geografica di cui la City gode, grazie alla sua posizione a cavallo tra Nordamerica e Asia, da cui le deriva una distribuzione del fuso orario (infatti universalmente indicato dalla sigla Gmt – Greenwhich Mean Time) particolarmente favorevole, che le permette di essere aperta sia quando l’Asia è ancora operativa, sia quando l’America inizia a prepararsi per gli scambi della giornata, e per buona parte di essa. Grazie a questa caratteristica la City si è guadagnata il ruolo di principale piazza per gli scambi di valuta del pianeta, elevandosi così al di sopra del semplice rango di hub regionale.
Inoltre, la City si trova a essere il più importante centro per le transazioni in una valuta (l’euro) che non le appartiene e verso cui ha sempre nutrito una certa diffidenza, derivante dall’identificazione di tale moneta con l’asse franco-tedesco su cui si è storicamente fondata l’Unione Europea. Da qui la dissonanza cognitiva di cui talvolta soffre la City, ben consapevole di essere stata tra le maggiori beneficiarie del combinato disposto della deregulation thatcheriana e della creazione della moneta unica, che ha portato le istituzioni finanziarie di tutta Europa a trasferire i loro trading desks a Londra, così determinando l’esplosione dell’industria dei servizi finanziari in Gran Bretagna; ma, insieme, riluttante nel rimanere ancorata a un continente (e alle sue macchinose istituzioni) cui di fatto sente di non appartenere, e a cui rimane legata per mero opportunismo. Di qui l’incessante ricerca di un nuovo ruolo nello scenario geopolitico mondiale.
2. L’Unione Europea si è evoluta molto più di quanto gli inglesi sperassero quando decisero di entrarne a far parte nel 1973. Nelle loro intenzioni, l’Europa doveva rimanere un mercato comune da cui una potenza insulare e liberoscambista come era tradizionalmente il Regno Unito avrebbe tratto enorme giovamento. Da questa percezione è disceso il tipico atteggiamento britannico di appartenenza al mercato comune, ma insieme di assenza dal tavolo delle istituzioni, platealmente manifestata in occasione dell’approvazione del fiscal compact e più recentemente nel caso dell’indicazione di Jean-Claude Junker quale presidente della Commissione europea. Questa posizione di opportunistica ambiguità è potuta durare fintantoché gli altri soci non hanno presentato il conto, pretendendo che anche il Regno Unito pagasse la sua fair share di responsabilità per l’appartenenza al club. A quel punto il governo liberal-conservatore inglese ha messo in campo il referendum sull’appartenenza all’Unione Europea, da tenersi tra il 2016 e il 2017, nel caso in cui i conservatori vincessero nuovamente le elezioni previste per maggio 2015. In questo caso, Downing Street ha deciso di fare affidamento a ben note astuzie diplomatiche, sostenendo che i tories faranno campagna per la permanenza nell’Unione Europea a patto che nel frattempo siano stati rimpatriati sufficienti poteri.
Ma cosa avrebbe da guadagnare la City da un’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea? Nella propaganda dei fautori del Brexit, la City potrebbe finalmente riacquistare quella sovranità regolamentare che i «perfidi burocrati» di Bruxelles le avrebbero nel tempo sottratto a suon di direttive sui servizi finanziari. Ma il risveglio dall’ubriacatura propagandistica potrebbe essere molto più amaro, a causa dell’esistenza del cosiddetto «trilemma» dell’economia finanziaria internazionale, in base al quale non si possono avere al tempo stesso le tre seguenti condizioni: stabilità finanziaria, internazionalizzazione degli scambi e sovranità regolamentare. Spingendo su due delle tre, la terza viene necessariamente a cadere.
Ora, dato che la City vuole continuare a godere di un ruolo di primo piano nella mediazione degli scambi finanziari internazionali e – dopo le devastanti conseguenze della crisi finanziaria del 2007 – non intende rinunciare alla garanzia (almeno sulla carta) di una più solida stabilità finanziaria, per esclusione deve cedere sul terreno della sovranità regolamentare. Ma quando anche la logica economica non fosse sufficiente, le burocrazie di Bruxelles hanno già provveduto a mettere gli opportuni paletti legislativi.
Secondo la nuova direttiva sui servizi finanziari (Mifid II), istituzioni finanziarie di paesi non-Ue (cosiddetti «paesi terzi») che intendono offrire servizi finanziari a cittadini comunitari devono necessariamente aprire una filiale in un paese dell’Unione Europea, sottoponendosi alla regolamentazione comunitaria, a meno che non siano soggette a una regolamentazione giudicata «equivalente» nel loro paese di origine. Questa «equivalenza» viene giudicata dalla European Securities and Markets Authority dell’Ue. Che cosa succederebbe se il Regno Unito uscisse dall’Ue? A quel punto diverrebbe un paese terzo, e pertanto le sue istituzioni finanziarie sarebbero costrette ad aprire una filiale in territorio comunitario per accedere ai cittadini del mercato comune, sottoponendosi pertanto alle sue regole. Se invece decidessero di scegliere la strada della «regolamentazione equivalente», dovrebbero fare enorme pressione sulle autorità del Regno Unito perché adottino una regolamentazione almeno tanto restrittiva quanto quella comunitaria. Segnando così la fine dell’illusoria riconquista della sovranità regolamentare a motivo della quale si era promossa l’uscita dall’Ue. Con l’aggravante che, mentre come parte dell’Ue la Gran Bretagna ha voce in capitolo nella scrittura della regolamentazione, come «paese terzo» non avrebbe nean che questo potere, se non altro di interdizione.
3. Se la City non può spezzare le catene dell’Ue senza ritrovarsi più prigioniera di prima, esiste ancora un’altra possibilità, che Londra sta già percorrendo, e che in parte è stata indicata dal nuovo governatore della Banca d’Inghilterra, il canadese Mark Carney. Intervenendo alle celebrazioni del 125° anniversario della fondazione del Financial Times, Carney, ex governatore della Banca del Canada e attuale presidente del Financial Stability Board, con una lunga esperienza in Goldman Sachs, ha delineato un futuro in cui, seguendo le tendenze attuali, nel 2050 gli asset delle banche basate nel Regno Unito potrebbero valere fino a nove volte il suo pil – senza considerare il contributo addizionale delle banche straniere basate a Londra e del comparto enorme dello shadow banking. Una prospettiva che molti guarderebbero con orrore, sostiene Carney, ma che invece dovrebbe essere presa seriamente in considerazione, se regolamentata adeguatamente.
In che direzione dovrebbe rivolgersi allora la City per assumere ancor di più il ruolo di financial super-hub, di centro della finanza mondiale? Essa ha già fatto un enorme sforzo per attrarre sia la finanza cinese sia quella islamica, entrambe in rapida crescita. Per quanto riguarda la finanza cinese, dopo i primi accordi per l’instaurazione di swap lines in renminbi tra Bank of England (Boe) e People’s Bank of China (Pboc), che permettevano alla Boe di erogare valuta cinese in caso di necessità, si è passati a una forma di cooperazione ancora più forte. Le banche cinesi possono aprire filiali nella City con procedure semplificate, rimanendo regolamentate in gran parte da autorità cinesi. Si è poi rapidamente permesso a una di queste banche, la China Construction Bank, di divenire la prima clearing house per scambi in renminbi sul territorio britannico. Con tutta evidenza, si tratta di uno degli sforzi maggiori per far diventare il renminbi una valuta a valenza internazionale. Passaggio fondamentale per far diventare la Cina una superpotenza globale, nei prossimi anni […].
4. Il desiderio della City di sganciarsi dall’Unione Europea potrebbe non essere solo motivato dalla ricerca di maggiori profitti, o di maggiore libertà regolamentare. Potrebbe essere il frutto di una strategia di hedging da parte di operatori che vedono evolvere lo scenario geopolitico in modo del tutto sfavorevole all’Ue, che potrebbe cessare di esistere nell’arco di pochi anni, quanto meno nella forma a noi nota. In effetti l’Europa unita, intesa come il più grande esperimento nella storia dell’umanità di una zona di pace, prosperità, libertà, democrazia e protezione sociale perpetue, è in questo momento sotto assedio da tutti i fronti: i flussi migratori in fuga dalla povertà e dalla guerra provenienti dal Nordafrica; la continua instabilità politico-militare in Medio Oriente (con almeno tre fronti aperti: Palestina, Siria e Iraq); la pressione a nord-est proveniente dalla crisi russo-ucraina. In questo momento così delicato, l’Europa dovrebbe cercare di rimanere unita. Invece inizia a dividersi, sotto i colpi di opposti populismi, nazionalismi e separatismi, in lotta contro la perpetuazione di uno status quo che la leadership tedesca vede come unica soluzione accettabile, ma che i popoli che ne subiscono le conseguenze percepiscono come troppo tragicamente simile a una zombificazione.
Sotto queste pressioni interne ed esterne, l’Unione Europea rischia di saltare in pochi anni: avendo promosso attivamente la creazione di macroregioni transnazionali, l’Europa degli Stati nazionali sta scomparendo sotto il peso dei meccanismi (rimasti tragicamente imperfetti) di regolazione della moneta unica, che non fanno che riaccendere opposti populismi anti-euro, come quello di Marine Le Pen in Francia e quello dell’AfD in Germania. L’Europa potrebbe forse salvarsi promuovendo la nascita (non indolore) di macroregioni transnazionali. Ma questo processo non può avvenire sotto una leadership che promuove il mantenimento di equilibri insostenibili. Così facendo, regionalismi potenzialmente sani diventano separatismi dalle potenzialità esplosive, come ha dimostrato il referendum scozzese. Quanto ancora prima dell’inevitabile incidente che metterà l’Europa finalmente di fronte alle sue responsabilità?
Proiettandoci di dieci anni nel futuro, una City che si ritrovasse senza più l’Europa di cui era la piazza finanziaria principale finirebbe vittima degli eventi. Ma il popolo britannico, pragmatico e poco incline ai sentimentalismi, sente di doversi preparare a un futuro diverso, in cui ogni Stato europeo (o quello che ne rimane) potrebbe essere costretto ad andare per la sua strada, a cercarsi un ruolo nel mondo. Se questo scenario si materializzasse, visti i passi fatti oggi, la City avrebbe già un ruolo, ancora una volta di primo piano, in uno scenario geopolitico totalmente cambiato. I suoi legami con la Cina e con il mondo islamico, oltre alla special relationship con gli Stati Uniti, le permetterebbero ancora una volta di gestire il tavolo su cui si danno le carte più importanti.
La speranza è che la Gran Bretagna non si faccia detonatore, con il suo referendum sull’Unione Europea del 2016-17, di quello scenario che per ora sta solo paventando. E per affrontare il quale sta prendendo le sue giuste precauzioni.
Questo è un estratto da “L’impero è Londra”, il numero di Limes dedicato al Regno Unito e ai secessionismi europei dopo il referendum in Scozia.
Allegati: Puoi scaricare il numero di Limes da qui (prezzo ridotto)http://bit.ly/LimesLondra