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L’ideologia verde sta portando l’Europa verso obiettivi impossibili e dannosi: parla Zollino

INTERVISTA A GIUSEPPE ZOLLINO, professore di tecnica ed economia dell’Energia alla Facoltà di ingegneria dell’Università di Padova, che esamina tutte le incongruenze del Green Deal di Bruxelles. Il caso dell’auto è esemplare: puntare solo sull’elettrico non solo mette in gravi difficoltà la nostra industria ma non raggiunge nemmeno gli obiettivi ambientali

L’ideologia verde sta portando l’Europa verso obiettivi impossibili e dannosi: parla Zollino

“È diventato un po’ un vizio della Commissione europea fissare obiettivi irrealistici, nell’ampiezza e nella scadenza, che rischiano di ostacolare, invece di aiutare, il raggiungimento di obiettivi giustissimi come quello della decarbonizzazione. È successo in passato e rischia di succedere ancora con il Regolamento sull’auto elettrica appena approvato in via definitiva dal parlamento europeo”. Giuseppe Zollino è professore di tecnica ed economia dell’Energia alla Facoltà di ingegneria dell’Università di Padova, è un profondo conoscitore del settore con varie esperienze anche in Europa. Lo scorso anno in vista delle elezioni ha scritto il capitolo energia ed ambiente del programma di Azione ed è tuttora responsabile di quel settore.

A lui abbiamo rivolto alcune domande per chiarire cosa sta avvenendo in tema di transizione ecologica dove sembra che ogni autorità di muova in maniera disordinata e non in base a calcoli precisi e validati scientificamente, ma sulla spinta della emotività, o peggio per cercare visibilità politica. Il risultato è che si rischia di imboccare strade che non portano alle mete previste, che si spendano tanti soldi rischiando di compromettere il benessere raggiunto dai nostri cittadini, che si fissino regole senza una adeguata valutazione del loro impatto.

Il caso del Regolamento sul bando dei motori termici per le auto a partire dal 2035 mi sembra uno di questi casi. Siamo sicuri che le auto elettriche siano veramente la soluzione più pulita dal punto di vista ecologico? 

“Effettivamente questo riguarda tutto il Green Deal: decisioni prese su qualunque base -politica, ideologica, ecc.- che non siano approfondite analisi tecnico-economiche sul loro impatto, rischiano di non raggiungere gli obiettivi sperati. La decarbonizzazione dev’essere sostenibile dal punto di vista economico e sociale, perciò l’apparato produttivo europeo non va sconvolto, ma accompagnato in una evoluzione tecnologica ragionevole. Prendiamo il caso dell’auto. Il nuovo regolamento misura le emissioni al tubo di scappamento, di fatto consentendo la vendita di sole auto elettriche. Ma per valutare correttamente gli effetti della elettrificazione occorre considerare l’intero ciclo di vita del veicolo. Facciamo due esempi agli antipodi: supponiamo di costruire vettura e relativa batteria in Francia o in Svezia, e che poi quella vettura sia utilizzata negli stessi due Paesi, allora quell’auto è davvero a emissioni quasi zero, perché in Francia e Svezia l’energia elettricità è prodotta quasi tutta da nucleare (tra il 50 e il 70%) e rinnovabili. La stessa cosa non si può dire per un’auto prodotta in Cina e magari venduta in Polonia o in Germania, dove l’elettricità si produce in larga misura con combustibili fossili, tra cui un posto di rilievo spetta ancora al carbone”.

Quindi risulta confermata l’impressione che su tutta questa materia si prendono decisioni emotive o ideologiche senza affidarsi alla scienza.

“Come dicevo, per sostenere il rapido passaggio all’auto elettrica, il regolamento considera solo le emissioni alla bocca dello scappamento dove ovviamente l’elettrico ha emissioni zero, senza valutare l’intero ciclo di vita delle auto. Una decisione irrazionale e pure ipocrita, perché non tiene conto della realtà. Peraltro, se l’auto elettrica invece delle batterie avesse un serbatoio di idrogeno e pile a combustibile, le cose non cambierebbero granché, perché bisognerebbe di nuovo considerare l’origine di quell’idrogeno. Invece un’auto a combustione alimentata a biometano, filiera eccellente in Italia, viola il regolamento ma ha oggi emissioni reali largamente inferiori a quelle dell’auto elettrica. Detto questo, è indispensabile e urgente che la decarbonizzazione coinvolga tutto il settore dei trasporti, che contribuisce in maniera rilevante alle emissioni di CO2. Del resto, straordinarie transizioni tecnologiche ci sono già state in passato (pensiamo al passaggio dalla trazione animale a quella meccanica, all’inizio del secolo scorso) ma sempre guidate dall’affermazione della maggiore efficacia ed efficienza del nuovo che ha finito per soppiantare il vecchio, senza che a nessuno sia venuto in mente di fissare a tavolino la data del passaggio di consegne”.

Anche in Europa sembra si siano resi conto che target troppo rigidi non sono sostenibili. Tra tre anni ci sarà una revisione di questo Regolamento mentre in qualche modo si è aperto un varco per mantenere i motori termici con benzine di sintesi o biometano.

“In effetti l’art. 15 del regolamento appena approvato prevede nel 2026 una revisione profonda con molti punti di verifica della situazione in modo da capire se non sia il caso di rivedere tempi ed obiettivi previsti nell’art. 1. Ed anche nelle premesse del testo del compromesso approvato dal Consiglio dei capi di Stato in autunno, si accenna alla possibilità di mantenere il motore termico alimentato da carburanti puliti. E questo diventa fondamentale soprattutto per i veicoli pesanti che sulla base delle tecnologie oggi disponibili difficilmente andranno a batterie”.

Certo che in tutta questa vicenda del cambiamento climatico sembra che si stia procedendo in maniera erratica. Ci sono enormi problemi di politica industriale affrontati in maniera nazionalistica con gravi rischi per il commercio internazionale, e poi ci sono delle oscillazioni nei comportamenti sia dei politici che dei cittadini. Ad esempio, mi ha molto colpito che solo all’inizio dello scorso anno, dopo una lunga battaglia, sono stati inseriti nella tassonomia europea gas e nucleare, proprio mentre tutti nel mondo si scatenavano alla ricerca di gas i cui prezzi sono schizzati a livelli mai visti prima. Insomma, da un lato si frenano gli investimenti dicendo che il gas non servirà più tra pochi anni e dall’altro lo si cerca dappertutto, volendo fare addirittura del nostro paese un hub del gas.

“Il nucleare è stato sì inserito nella tassonomia con una decisione politica, presa però sulla scorta di un poderoso studio del Centro Comune di Ricerca della Commissione che afferma con nettezza che esso non costituisce un rischio per i cittadini e che quindi è, insieme con le rinnovabili, tecnologia idonea per la decarbonizzazione. Per il gas si prevede l’impiego in transitorio; come dire: meglio gas che carbone. Tuttavia, penso che sarebbe opportuno ammettere il suo impiego da un certo punto in poi unitamente alla cattura e stoccaggio o riutilizzo della CO2. Del resto, se vogliamo garantirci la disponibilità di gas naturale, tanto da pensare di fare del nostro paese un hub del gas, le infrastrutture che dobbiamo costruire ed i contratti sottoscritti con i fornitori dovranno avere una vita ben più lunga dei dieci anni previsti dalla Ue per l’uso del gas. E per usare più a lungo gas naturale in modo sostenibile occorre incentivare lo sviluppo di sistemi di cattura della CO2”.

Per ridurre i consumi di fonti energetiche fossili, dobbiamo passare a maggior consumi di energia elettrica fatta però con fonti che non emettono gas serra.

“Tutti gli scenari di lungo termine, a zero emissioni di CO2, prevedono una forte elettrificazione dei consumi. In Italia, per esempio il fabbisogno elettrico, inclusa la quota per la produzione di idrogeno, si stima possa essere di 650-700 Terawattora (miliardi di chilowattora). Tutti da generare senza emissione di CO2. Per arrivare a questo risultato è necessario impiegare tutte le tecnologie disponibili dalle rinnovabili, al nucleare, al gas con cattura della CO2, nel giusto mix, tenendo conto della situazione del nostro Paese. Bisognerà accelerare sin da subito gli investimenti nelle rinnovabili, per poi avviare tra 3-4 anni la costruzione di alcune centrali nucleari. Dai conti del mio gruppo di ricerca, ci serviranno al 2050 circa 35 GW nucleari e 380 GW di impianti fotovoltaici, eolici (prevalentemente offshore) e di accumulo di breve periodo e stagionali. Una sfida enorme che va affrontata e vinta. E la quota nucleare, pur minoritaria in termini di potenza installata, tuttavia fornirà circa il 40% del fabbisogno elettrico, a costi stabili e competitivi, tanto da abbassare il costo totale del sistema, oltre che a ridurre l’occupazione di suolo e l’impiego di materiali. Del resto, nel lungo periodo, è impensabile continuare a contare sull’import di elettricità dall’estere. Anche i nostri confinanti dovranno decarbonizzare e dunque vedranno crescere il loro fabbisogno elettrico: possiamo perciò attenderci in futuro che gli scambi continuino, ma cessi l’import netto verso l’Italia”.

Ma si dice che fare una centrale nucleare è troppo costoso e ci vogliono tempi troppo lunghi per cui non ne vale la pena.

“Sono affermazioni che raccontano solo una parte della situazione. Per costruire un reattore nucleare dell’attuale generazione, la terza evoluta, sicura e affidabile, sono tecnicamente sufficienti 7-8 anni, come dimostrano i 4 reattori costruiti in sequenza, a un anno di distanza uno dall’altro, negli Emirati. Lì la sudcoreana Kepco, in 11 anni ha costruito una centrale da 5,6 GW, che genererà 45 TWh continui e puliti per 60 anni, al costo stabile di circa 60 €/MWh. I 3 (solo 3) esempi europei, citati ad arte dagli antinucleari, sono il risultato della drastica riduzione di commesse all’industria europea e del sostanziale disimpegno delle utilities, causati dalla scelta ideologica di fissare di obiettivi europei obbligatori, sempre più ambiziosi, di quota rinnovabile nella generazione elettrica. Dove i reattori nucleari si costruiscono invece regolarmente, i numeri sono quelli che ho detto. Ora è tempo di invertire la rotta anche in Europa, perché l’obiettivo della decarbonizzazione è troppo importante per affrontarlo in modo ideologico.

Del resto, anche per realizzare impianti rinnovabili ci vuole tempo. In Svizzera è stato inaugurato recentemente una centrale idroelettrica con bacini di accumulo da 20 Gigawattora e ci sono voluti 14 anni. E un ipotetico scenario italiano 100% rinnovabile di impianti come quello che ne servirebbero 50. 

Insomma, per fare una vera transizione energetica ci vogliono molti investimenti e molto tempo e bisogna seguire il dettato dei numeri e della tecnologia. L’Italia dovrebbe rifare con urgenza il proprio piano energetico, coinvolgendo veri esperti della materia, i quali dovrebbero proporre scenari alternativi, indicando le implicazioni e i costi di ciascuno. Poi il Governo e soprattutto l’intero Parlamento dovrebbero valutare e scegliere. Sarebbe importante puntare ad una larga adesione di tutte le forze politiche perché si tratta di un piano a lungo termine, ben al di là della durata di una legislatura, che impegnerà il paese intero per almeno mezzo secolo”.

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