Caos in Libia. Il primo ministro Ali Zeidan è stato portato in un luogo sconosciuto e liberato poche ore dopo. Rapito, secondo alcuni. Arrestato, secondo le milizie della “Camera dei rivoluzionari di Libia”, gruppo che lo stesso governo aveva ingaggiato per garantire la sicurezza a Tripoli. L’accusa, pare, è di eccessiva morbidezza con gli Usa, che nel fine settimana avevano catturato nella capitale libica Al Libi, considerato dagli americani uno dei responsabili di una delle più devastanti operazioni di al Qaeda, gli attacchi del 1998 contro le ambasciate Usa di Nairobi e Dar es Saalam.
Stefano Silvestri, consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali, spiega a Firstonline cosa sta accadendo nel Paese nordafricano e quali saranno gli effetti dell’instabilità nella politica e nell’economia internazionale. “La Libia – osserva – è in mano a tutta una serie di gruppi armati, che in parte sono sovvenzionati da quel che rimane dello Stato. Gli ex ribelli che hanno rivendicato il sequestro o l’arresto del primo ministro sono un gruppo che normalmente lavora con il ministero dell’Interno e con quello della Difesa, ma che naturalmente è anche autonomo. A suo tempo, aveva accusato il primo ministro di aver collaborato con gli americani per il sequestro di Al Libi, il terrorista che gli Usa hanno catturato a Tripoli e che vogliono processare. Il dicastero della Giustizia precedentemente aveva detto che non c’erano atti di accusa o mandati nei confronti del primo ministro, ma il problema è che in Libia il normale funzionamento dell’amministrazione – anche della giustizia – è del tutto vago. In pratica, possono dire quello che gli pare. Vedremo poi all’atto pratico cosa accadrà. Non si capisce se questo gruppo voglia negoziare qualche cosa con il primo ministro, oppure se si tratta di una lotta di potere e un tentativo di destabilizzazione dell’attuale governo. Al momento tutte le ipotesi sono aperte.
Gli americani intanto, dopo l’operazione Al Libi, hanno spostato 200 marine dalla Spagna alla base Nato di Sigonella, in Sicilia. Cosa sta facendo e cosa può fare l’Occidente?
L’Occidente dovrebbe evitare di peggiorare la situazione, facendo ad esempio sequestri, come nel caso di Al Libi. Direi che, per il resto, l’Occidente può fare abbastanza poco. Può cercare di intervenire, ma su un caso specifico. Può sentire che cosa vogliono questi gruppi e poi vedere se si può fare un negoziato per terze persone. Ma non credo che siano gli occidentali i più indicati in questo caso.
Il primo ministro Ali Zeidan era accusato di collaborare con Washington. C’entra solo la cattura di Al Libi o c’è dell’altro?
A più lungo termine, una delle principali richieste di questo primo ministro era che lo si aiutasse a eliminare il sovrappiù enorme di armi che c’è in Libia e che, a suo avviso, non solo alimenta questi gruppi, ma anche un grande commercio in tutte le direzioni, in particolare la Siria, il Sahara, il Mali e il Niger. Un commercio che è controllato da alcune di queste bande. Potrebbe essere che questo sequestro sia legato alla protezione di queste attività criminali. E nel più lungo termine è certamente nostro interesse cercare di collaborare perché questo commercio finisca.
Oltre all’interesse a fermare il commercio di armi, l’Italia ha anche altri interessi, economici e di materie prime. Cambia qualcosa?
Non dovrebbe accadere granché. Sì, ci sono state minacce alle forniture di gas e petrolio, ma fondamentalmente è interesse di tutti – non solo nostro, anche dei libici – che le forniture proseguano normalmente e che i contratti siano rispettati. Il problema, magari, potrebbe sorgere per eventuali nuove esplorazioni, perché lì bisogna capire chi controlla il territorio. Non c’è, in questo momento, un governo in Libia che abbia autorità su tutte le aree del Paese, in particolare le zone desertiche.
Eppure i pozzi petroliferi sono fermi da due mesi.
Questo secondo me è un problema marginale. L’effetto generale è solo sul prezzo del petrolio, che rimane alto – il Brent si aggira sui 110-115 dollari al barile – mentre dovrebbe essere più economico, visto che c’è una sovrapproduzione notevole. Il prezzo non si abbassa proprio a causa di queste tensioni, non per la scarsità.
Quel che sta accadendo in Libia adesso è paragonabile ai contraccolpi che si sono verificati in alcuni Paesi delle Primavere arabe, come l’Egitto che dopo Hosni Mubarak ha visto cadere Mohamed Morsi per mano dell’esercito, o è qualcosa di diverso?
Direi che è una situazione diversa. Negli altri Paesi la struttura statale, bene o male, ha tenuto il colpo ed è sopravvissuta a sommovimenti politici e cambiamenti di governo. In Libia, invece, si è praticamente dissolto quel poco di Stato che c’era. Oggi assistiamo a una situazione grottesca: bande armate al soldo di cosiddetti ministeri improvvisamente invadono gli stessi ministeri perché vogliono farsi pagare di più o perché non sono stati pagati. Invadono l’assemblea parlamentare. Prendono un primo ministro. Da quartiere a quartiere controllano città, aeroporti, autostrade, senza che il governo centrale riesca ad imporre una autorità unica. Il vero problema è che la Libia non sta neanche andando verso una sorta di guerra civile, come la Siria, ma sta andando in una situazione sostanzialmente anarchica. E questo è molto pericoloso, non tanto per il petrolio o per il gas, ma perché questo alimenta l’instabilità di tutta l’Africa del Nord.
La Libia come la Somalia?
Sì, è come se si stia creando una specie di situazione somala. Anche se per fortuna ancora a uno stadio preliminare.