L’Italia torna in Libia. L’Italia torna in Libia? Mai come in questo caso la punteggiatura è fondamentale. Gli osservatori italiani e stranieri hanno commentato la visita di Draghi in Libia (la prima in un Paese straniero) secondo il classico bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. O fra ottimisti e pessimisti, se si preferisce. A ben vedere, sia gli argomenti degli uni sia quelli degli altri sono convincenti. Cominciamo dagli ottimisti, quelli che mettono il punto fermo.
GLI ARGOMENTI DEGLI OTTIMISTI…
È vero – sostengono – in questi dieci anni, da quando cioè il regime di Gheddafi è stato spazzato via, in maniera raffazzonata, dubbia e dalle conseguenze disastrose, l’Italia non ha brillato per iniziativa diplomatica; anzi, dopo che il Paese africano è caduto nella spirale della guerra civile, ci siamo semmai distinti per mancanza di iniziativa e non abbiamo nemmeno scelto una parte, trincerandoci dietro le decisioni dell’Onu. Eppure – continuano le argomentazioni degli ottimisti – sono proprio queste debolezze che potrebbero fare di Roma l’interlocutore privilegiato della Libia che vuole tornare a vivere. Insomma, l’Italia non ha partecipato alla guerra civile, è riuscita in parte a far rispettare l’embargo sulle armi pesanti, cosa che ha impedito al Paese di trasformarsi in un cumulo di macerie come la Siria, ha dialogato con tutti, perché non dovrebbe avere titolo per presentarsi come un partner affidabile e sopra le parti? Sì, l’Italia torna in Libia, dunque.
…E QUELLI DEI PESSIMISTI
Per gli osservatori con il punto interrogativo, i pessimisti, invece, il passato quasi mai passa. Una visita – sostengono – sebbene di un premier così autorevole come Draghi, non può far dimenticare che per dieci anni l’Italia ha sprecato il suo tempo dietro a un’idea platonica del dialogo a tutto campo con ogni gruppo libico, seguendo senza fantasia l’approccio irrealistico delle Nazioni Unite e dei suoi fallimentari inviati speciali (Bernardino Leon, Martin Kobler, Ghessam Salamé e ora Jan Kubis). Sempre in questi dieci anni l’Italia si è limitata a organizzare incontri internazionali a Roma o a Tripoli che non hanno destato la minima attenzione perché privi di una linea chiara e originale. Non a caso tutte queste iniziative sono state chiamate “photo opportunities”, perché tali erano. La posizione italiana (ed europea) è diventata ancora più evanescente una volta che Russia e Turchia (tra l’aprile del 2019 e il luglio del 2020) sono entrate nel conflitto a gamba tesa, schierandosi l’una dalla parte del generale Haftar, l’altra da quella del premier riconosciuto dall’Oni, Serraj.
Il compromesso che il 13 marzo scorso ha portato al governo il nuovo premier Dbeibah ha ratificato che con le armi non si va più da nessuna parte e che è tempo di trovare nuove strade. Ma l’Italia si illude di poter reclamare un posto da protagonista in questo nuovo orizzonte perché la nostra insipienza passata non è dimenticata da nessuno, tantomeno dai libici, che ora cercano solo di ottenere il massimo da tutti gli interlocutori del Mediterraneo. I pessimisti, insomma, non credono che la Libia si avvii a ritrovare né la sua unità né la sua indipendenza. L’unità – sostengono – è un miraggio in questo Paese da sempre diviso in tre regioni l’una diversa dall’altra (Cirenaica, Fezzan e Tripolitania), che solo Gheddafi, grazie al pugno di ferro, era riuscito a mettere insieme. Non sarebbe il caso – concludono i pessimisti – di prenderne atto e immaginare a questo punto della storia una Federazione dei tre territori? Quanto all’indipendenza, sarà difficile che russi e turchi accettino di uscire di scena dopo che sono diventati (per la Turchia è un replay, per la Russia una novità) attori protagonisti della storia del Mediterraneo.
COS’È CAMBIATO NEGLI ULTIMI MESI
La verità è che entrambe le posizioni sono serie e ragionevoli, ma entrambe sottovalutano il ruolo della storia, che non si ferma mai al passato e nemmeno è in grado di disegnare il futuro a tavolino: si muove e basta, al resto pensano le opere degli uomini. Che in Libia si sia di nuovo messa in movimento è fuori discussione, così come però è altrettanto chiaro che è impossibile intravvedere la direzione che prenderà. Confonde gli osservatori anche il fatto che nel Paese si è passati praticamente da una guerra civile a un governo unitario in un batter d’occhio. Nel giro di due giorni, dal 14 al 16 febbraio di quest’anno, sono usciti di scena i due contendenti, Serraj e Haftar, e dopo nemmeno un mese c’era un governo unico per l’intero Paese.
Rivediamoli questi passaggi. È il 14 febbraio 2021, il primo ministro voluto dall’Onu, Serraj, si ritira per ragioni di salute lasciando al suo vice, Maiteeg, il compito di scegliere all’interno del Forum del dialogo, istituito nel mese di novembre del 2020 e composto da 75 rappresentanti delle varie parti del Paese, il gruppo dirigente che avrebbe dovuto condurre la fase di transizione verso le elezioni, previste per il 24 dicembre 2021. Quasi contemporaneamente lascia anche il rivale Haftar, comunque già eclissato perché sconfitto sul campo. Poi, solo due giorni dopo, a Ginevra, lo stesso Forum elegge Mohammed al Menfi, un ingegnere già ambasciatore della Libia in Grecia, come presidente del consiglio presidenziale, e Hamid Dbeibah, un ricco uomo di affari, come primo ministro. Il 15 marzo a Bengasi nasce il nuovo governo di unità nazionale sotto l’egida dell’Onu. In un mese è cambiato tutto e la Libia si prepara a percorrere strade diverse dalla guerra.
LE INFRASTRUTTURE DA RICOSTRUIRE
Cosa vogliono i nuovi libici? A ben vedere, le loro richieste sono ragionevoli. Il nuovo primo ministro Dbeibah,62 anni, laureato in ingegneria, membro di un’importante e ricca famiglia di Misurata, non ha fatto mistero di desiderare che il processo di pacificazione del suo Paese vada di pari passo alla strategia economica per ricostruirlo. Questa visione è condivisa pienamente dall’Italia, che però deve innanzitutto risolvere un problema di comunicazioni con il Paese nordafricano.
Per questo la visita di Draghi è stata preceduta da quella dei dirigenti del Consorzio di imprese Aeneas, Elio Franci, e dell’Enav, l’agenzia italiana per il servizio aereo, Paolo Simioni. Si dovrà ricostruire l’aeroporto di Tripoli per ripristinare i collegamenti tra i due Paesi e tra la Libia e l’Europa. La nuova infrastruttura costerà 80 milioni di euro e sarà realizzata dal Consorzio Aeneas, appunto, di cui fanno parte le imprese Escape, Axitea, Twoseven, Lyon Consulting e la barese Orfeo Mazzitelli. Il gruppo italiano si era già aggiudicato la costruzione dei due terminal (nazionale e internazionale), un parcheggio e la strada di accesso, ma poi i lavori furono bloccati perché infuriava la battaglia attorno all’area, a 20 km da Tripoli. Ora il Consorzio Aeneas è pronto a riprendere l’opera, ovviamente in sicurezza.
Altri progetti riguardano il terzo anello autostradale di Tripoli a cui sono interessati Webuild (dal 15 maggio dello scorso anno è il nuovo nome di Salini Impregilo) e Rizzani de Eccher, per un valore di un miliardo di euro. Mentre Telecom Italia Sparkle collabora con la Libyan International Company (LITC) per garantire i collegamenti tra i due Paesi grazie al cavo Tripoli-Mazara del Vallo.
Resta in piedi anche il sogno tripolino dell’autostrada costiera prevista dal Trattato di pace che Gheddafi firmò con Berlusconi nel 2008 e che, secondo il leader libico, doveva essere una sorta di risarcimento per il passato coloniale.
Insomma, tutto questo lavorio di uomini attenti al portafogli lascia credere che il movimento della storia di cui si parlava punti diritto verso un periodo di pace.
IL RUOLO DI RUSSIA E TURCHIA
I pessimisti a questo punto ci ricorderebbero la presenza sul terreno degli attori non libici, i russi e i turchi. E come al solito non avrebbero tutti i torti. L’ultimatum dell’Onu per il loro ritiro previsto per il 23 gennaio è passato inosservato. I militari turchi, inviati come si è detto da Erdogan per sostenere Serraj, controllano la base aerea di Al-Watiya, quella navale di Misurata e non sembrano voler abbandonare la Tripolitania. Dall’altra parte del fronte, intorno a Sirte, ci sono circa 2000 mercenari russi della compagnia Wagner, inviati da Putin per dare man forte a Haftar. Qui, come hanno mostrato le immagini di un servizio della Cnn a gennaio, i russi hanno eretto perfino una trincea lunga 70 km, prova che ci vogliono rimanere.
E tuttavia i tempi sono nuovi e non solo in Libia, ma anche in Europa e negli Usa. Dbeibah ha detto chiaramente davanti al parlamento riunito per il suo insediamento che “i mercenari sono una pugnalata alle spalle del nostro Paese e devono andarsene. La nostra sovranità è violata dalla loro presenza”. E le sue parole non sono cadute nel vuoto. Italia, Germania e Francia hanno messo da parte le loro idiosincrasie e il 25 marzo scorso sono andate insieme a Tripoli per esprimere e promettere il loro sostegno al programma del nuovo premier libico. E l’altro giorno, mentre Draghi arrivava a Tripoli, i due leader dell’Europa, von der Leyen e Michel, erano ad Ankara per avviare con Erdogan anche il discorso della fuoriuscita dei turchi dalla nuova Libia.
Resta da vedere chi dovrà parlare con Putin e quali saranno gli argomenti che saranno scelti. La Russia non fa parte della Nato, come il sultano di Ankara, e quindi il dialogo è più difficile. Soprattutto in questo momento in cui i punti di attrito di Mosca con Bruxelles, Roma e Washington sono numerosi, fra scoperta di spie, polemiche per i diritti umani e guerra cibernetica.
Insomma, non sarà facile convincere Putin a ritirare i mercenari dal “bel suol d’amore”: il Mediterraneo è da sempre il sogno proibito di tutte le generazioni che hanno guidato la Russia, si chiamassero zar o comunisti. Oppure semplicemente Putin.