La galassia liberale
Marco Pannella, per non lasciare alcuna ombra sul suo credo politico, soleva definirsi come “liberale, liberista, libertario”, termini ai quali sovente associava quello di libertino. In questo modo pigliava tutti i significati dell’essere liberale, che è una parola che abbraccia veramente una galassia di idee, movimenti e organizzazioni. Liberale, libertario e liberista è poi diventato il motto dei Radicali italiani che si completa con “costituente del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito”. Forse è una delle più audaci definizioni del liberalismo del XXI secolo.
La galassia liberale comprende i liberal americani che sono dei mezzo-socialisti, difensori dello stato sociale e i liberali europei che invece vorrebbero limitare lo stato sociale per valorizzare la responsabilità individuale e le associazioni civili attraverso cui si esprime. In Italia i liberali hanno avuto una funzione fondamentale nello state building e i 50 anni dello Stato liberale sono stati, forse, i migliori della storia dell’Italia unita. L’incapacità della classe dirigente liberale nel gestire nel primo dopoguerra le conseguenze di una guerra vittoriosa, della rivoluzione russa e della derivante radicalizzazione politica, ha condotto alla sua disintegrazione lasciando un vuoto subito riempito dal fascismo. Dopo la rovinosa caduta di Mussolini, la tradizione di pensiero e di azione liberale è stata portata avanti, da una parte, da grandi intellettuali pubblici, in un magnifico isolamento, e, dall’altra, da formazioni politiche marginali ma visionarie che hanno sottratto alcuni temi legati ai diritti civili, alle libertà personali e all’economia di mercato sottraendoli dall’abbraccio soffocante delle due culture dominanti del periodo della guerra fredda, quella cattolica e quella comunista. In queste culture la parola individuo era quasi anatema.
Chi fosse curioso di conoscere qualche nome della tradizione liberale italiana (sul momento ne vengono alla mente veramente pochi, ma ve ne sono, eccome!) può consultare gli indispensabili due volumi del Dizionario del liberalismo italiano edito da Rubettino.
Progressista, ma siamo sicuri?
Ma si parla ormai di avvenimenti piuttosto lontani che ricorrono poco nel dibattito pubblico. Forse l’unica cosa che accomuna davvero tutte le esperienze liberali è il laicismo e la fiducia nel progresso e nella democrazia, un qualcosa che inizia a creparsi in molte parti del mondo.
La stessa Hillary Clinton al termine liberale preferisce progressista che è ancora più lato: più che altro designa uno stato dello spirito, più che un’idea o un programma politico. Anche una importante e controversa testa d’uovo liberal come Larry Summers, nei suoi illuminanti interventi sulla politica economica e sociale nell’epoca della grande recessione, non parla mai di politiche o politici liberali, ma usa sempre il termine progressista.
In Italia, che sta insegnando molte cose all’America in termini di esperimenti politici antesignani visti con sufficienza e disprezzo da oltre Atlantico, ci sono stati davvero i Progressisti. Nel 1994 Achille Occhetto cercò di utilizzare proprio il termine “progressisti”, dopo la caduta del muro di Berlino e Mani pulite, per definire una coalizione politica (Alleanza dei Progressisti), che egli stesso definiva una “gloriosa macchina da guerra”. Mica tanto, alle politiche del 94 fu però, sorprendentemente per lui, battuto da un debuttante Berlusconi nella sua variante più liberale. La parola d’ordine di Berlusconi nel 1994 era proprio la gobettiana “Rivoluzione liberale”, anche se più che a Gobetti pensava a Reagan. Allora liberale funzionò più di progressista. Poi i veri liberali abbandonarono Berlusconi per sparire, di nuovo, nel nulla. E dal quel momento l’“Economist”, il depositario del Santo Gral liberale, ha iniziato a bastonare di brutto il “liberale” Berlusconi per il conflitto d’interessi e la cinica politica di occupazione del potere che di liberale avevano ben poco.
Ecco che proprio l’“Economist” ci racconta perché la parola liberale sta scomparendo dal gergo politico contemporaneo. Di seguito offriamo ai nostri lettori la traduzione dell’articolo comparso nella rubrica Johnson dal titolo Liberal Blues (Paturnie liberali). Buon divertimento!
Liberale a chi?
La politica americana nel mese di luglio ha raggiunto un dei suoi massimi picchi con le convenzioni dei due principali partiti riunitisi per nominare il candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Nel grande blablà è mancata una parola: “liberale”. Liberale sta sparendo in America e dovunque. Una volta la parola liberale campeggiava orgogliosamente sullo stendardo dei democratici ed era lo spauracchio dei repubblicani. Pat Buchanan, un repubblicano conservatore allora emergente, in un infuocato discorso alla Convenzione del suo partito del 1992 dichiarò una “guerra culturale” ai “liberali e radicali”. Franz Luntz, consigliere del Grand Old Party, propose di usare la parola “liberale” in combinazione con schifo, corruzione e tradimento insieme per insozzare i democratici.
I liberali più stagionati amano ancora questo termine: Paul Krugman, un economista, tiene un blog sul “New York Times” con lo slogan “la coscienza di un liberale” e Thomas Frank ha scritto un libro dal titolo Listen, Liberal che critica i Democratici per aver perso di vista i blue collar (che adesso sono nel campo di Trump, del Brexit e della signora Le Pen) a favore della classe media.
Quando Hillary Clinton ha presentato Tim Kaine (scelto come candidato alla vicepresidenza) conosceva bene la parola che i militanti avrebbe voluto sentire: “Tim è un combattente di lunga data per le cause progressiste”. Progressista sta prendendo rapidamente il posto di liberale. Sono rimasti solo i Repubblicani ad usare ancora il termine liberale con le loro reiterate rimostranze sui “media liberali” o sui “valori liberali”.
I molti sensi di liberale
Liberale ha significato molte cose differenti nel corso della storia. I primi politici a dichiararsi liberali sono stati gli spagnoli che, nel 1814, si opposero alla sospensione della costituzione da parte del Re. Poi la parola dalla Spagna si diffuse in Francia e in Italia. Ma mise radici profonde in Inghilterra nella filosofia, con il pensiero di John Stuart Mill, e in politica con il Partito Liberale (Liberal Party). James Wilson, il fondatore dell’“Economist”, era un parlamentare del Liberal Party dal 1847 al 1859. Questo tipo di liberalismo, quello che ancor oggi questo giornale propugna, mette l’accento sulla liberà individuale, il libero mercato e uno Stato limitato.
È successo che nel tempo la parola ha preso un’altra direzione. Nei paesi di lingua francese e spagnola, liberale, oggi spesso accompagnato dal prefisso “neo-”, è una parola controversa che ha esattamente il significato contrario di quello che ha in America: descrive uno spietata filosofia economica priva di regolazione pubblica e un ordine globale in cui la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale comandano a bacchetta i paesi poveri costringendoli ad adottare politiche economiche di austerità e di mercato. In America, invece, liberale è associato con l’intervento dello Stato, non con la sua assenza, sulle orme del New Deal di Franklin Roosevelt.
In alcuni paesi la parola liberale non sembra avere alcun significato. In Giappone il partito di governo, il Partito liberal democratico, è moderatamente conservatore e marcatamente nazionalista. In Russia il partito con lo stesso nome è apertamente fascista. I liberaldemocratici inglesi, oggi in crisi d’identità, e il partito di governo in Canada, il Partito Liberale di Justin Trudeau, sono tra i pochissimi partiti ad avere mantenuto il nome e il DNA liberale.
L’impossibilità di una definizione
Liberale ha una doppia etimologia, deriva da libertà e liberazione. Sono in molti ad usare liberazione senza essere affatto liberali: Donald Trump, a Cleveland, ha detto con cipiglio che il suo programma è quello di “liberare la gente dal crimine, dal terrorismo e dall’illegalità”. Questo è un programma conservatore classico di rispetto della legge e applicazione dell’ordine che nessuno, eccetto Trump, confonderebbe in alcun modo con un qualsiasi significato della parola liberare.
Una così grande confusione sul termine liberare, ha prodotto tutto e il contrario di tutto. Molti nomi di partito liberale sono totalmente fuorvianti: Il partito di governo danese si chiama “Venstre” (Sinistra), sebbene di fatto sia un partito liberale di centro-destra. In altri paesi, come la Francia e l’Italia, i liberali hanno anche preso il nome di “Radicali”, qualcosa che echeggia l’era in cui un governo dall’intervento limitato era veramente radicale.
Dal 1960, nei paesi occidentali, la discussione su come distribuire la ricchezza nazionale ha fatto emergere temi tipici delle società post-industrali come l’ambiente e i diritti delle donne. I partiti che hanno fatto di questi temi il centro della loro azione si chiamano “verdi”, non liberali. Coloro che danno priorità alla privacy e al diritto di essere lasciati in pace dallo Stato si chiamano “libertari” congiungendo le due antiche parole “liberale” e “libertà”. Per aggiungere un ulteriore contorsionismo, i libertari di sinistra alle volte amano definirsi, in tono scherzoso, “libertariani”.
Non è facile definire “liberale”, è più facile circoscrivere i termini rivali come autoritarismo o fondamentalismo di ogni tipo. Qualsivoglia confusione vi sia sul significato di liberale, uno dei suoi elementi distintivi è sempre stato l’ottimismo. Anche se la parola in sé tende a sparire, la fede che la sostiene non si estinguerà.
Forse la parola più adatta a definire le “paturnie liberali ce la suggerisce il visionario storico israeliano Yuval Noah Harari quando definisce il suo essere vegano, veganish, cioè vagamente vegano, perché non rifiuta un dolcetto con uova e burro cucinato da un amico o dalla madre che lo ospita per cena. Un neologismo simile si potrebbe usare per liberale, cioè liberish, vagamente liberale.
A questo punto Liberish è veramente liberatorio di ogni paturnia.