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L’export salva la moda italiana

Secondo le previsioni di Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, illustrate nell’incontro annuale organizzato da Pambianco, il 2013 sarà l’anno della riscossa per la moda italiana – Loro Piana: “Possiamo fare tutto in Italia, aumentare la produttività, investire, esportare di più, purché l’euro abbia un valore realistico”

L’export salva la moda italiana

Senza voler essere troppo ottimisti, si può dire che per il sistema moda italiano già dal prossimo anno ci sarà qualche miglioramento. Ma sarà tutto da attribuire all’export, e in particolare alle vendite nei Paesi extra-Ue, che già oggi rappresentano il 49% del totale (il 52% per la filiera della pelle).

Tuttavia sarà solo alla fine del 2013, e poi nel 2014, che si potrà cominciare a parlare di ripresa anche sul fronte della redditività delle aziende, sia come ebitda, che dovrebbe tornare ai livelli del 2008, sia come roi, previsto in crescita a poco meno del 7%.

Questo mentre nello scenario macroeconomico si profila “una moderata espansione dell’attività economica a livello globale” con “un ruolo trainante degli Stati Uniti, delle economie asiatiche e dei Pesi Opec, mentre l’area euro continuerà a essere condizionata dal necessario processo di aggiustamento dei conti pubblici”.

In estrema sintesi sono queste le previsioni di Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, illustrate ieri nel consueto incontro annuale organizzato da Pambianco, Strategie di impresa, che non a caso quest’anno ha scelto come tema “A tutta forza verso l’estero”.

Ottimista si è dimostrato anche Pierluigi Loro Piana, amministratore delegato dell’omonima azienda di famiglia, che però ha sottolineato: “Possiamo fare tutto in Italia, aumentare la produttività, investire, attrarre più turisti, esportare di più. Ma a una precisa condizione: che l’euro abbia un valore realistico. Non possiamo continuare a essere l’unico Paese al mondo, come Ue, che non ha una banca centrale in grado di gestire la valuta. A dettare legge è solo il dollaro, che trascina con sé anche le altre monete a lui legate. Noi non possiamo fare altro che subire. Non è accettabile”.

Export, dunque, ma soprattutto di prodotti del lusso: è il lusso infatti quello che attrae i consumatori dei Paesi emergenti, che lo vivono come espressione del proprio status. E val la pena sottolineare che in questa fascia la quota di mercato mondiale dell’Italia sfiora il 13%, mentre la Francia si ferma al 4,9%.  Lusso vuol dire grande qualità e capacità di esprimere la proprio tradizione, ha sottolineato nel suo intervento François-Henri Pinault, ceo di Ppr, uno dei maggiori gruppi mondiali del lusso, che controlla tra l’altro quattro marchi italiani (Gucci, Bottega veneta, Sergio Rossi e Brioni), convinto che il made in Italy sia un sistema fragile ma che va assolutamente protetto e sostenuto.

Anche una ricerca realizzata da Pambianco su 23 gruppi italiani della moda e un campione di 335 aziende dimostra che il livello di internazionalizzazione e di redditività cresce in funzione della fascia di prodotto e della dimensione dell’azienda.

Nel frattempo le prime stime sull’anno in corso, rese note da De Felice nel suo intervento denso di analisi e di numeri, indicano per i primi otto mesi dell’anno un calo del 4,2% per il fatturato del sistema moda italiano, penalizzato soprattutto dal crollo del mercato interno che ha perso da gennaio ad agosto il 10,5% (contro un +5,5% dello stesso periodo del 2011). Con l’abbigliamento che ha subito una flessione del 16,5% mentre concia e pelletteria hanno perso solo l’1,1% (a dimostrazione del fatto che le borse in particolare restano un prodotto trainante, soprattutto all’estero). Per fine anno la perdita complessiva dei ricavi della moda italiana dovrebbe attestarsi attorno al 3,5-4%.

E’ dai mercato internazionali, dunque, che dipende buona parte della crescita delle imprese italiane, ma non tutti i mercati sono uguali: l’Europa è ancora stagnante (-1,8% nei primi sette mesi, con la Germania a -4%), mentre crescono Stati Uniti (+18,4%),  Russia (che con +14,4% ha superato la Germania), e poi Cina (+17,9%) e Corea del sud (+16,7%). E’ cresciuto molto anche il Giappone (+18,7%)  ma su questo Paese incombe una forte incognita, non solo perché nel secondo semestre è tornata la recessione, ma anche perché il Parlamento ha approvato un aumento dell’imposta sui consumi dal 5% attuale al 10% entro ottobre 2015. Questo potrebbe portare a una drastica frenata dei consumi stessi.

L’orizzonte, comunque, sembra rasserenarsi: “Il peggio potrebbe essere alle spalle – conclude De Felice – si vedono i primi, deboli, segnali di rallentamento della discesa”. E’ già qualcosa.         

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