Nel corso degli anni novanta nell’Unione Europea si è aperto il dibattito sulla alternativa fra “allargamento” e “approfondimento” (Widening and Deepening). Era evidente che, per partecipare a pieno titolo e da protagonista nella globalizzazione, l’Unione doveva diventare più “grande” in termini di popolazione, mercato e Pil e “più profonda” e cioè “più forte” in termini di assetto istituzionale e di rappresentanza politica.
Fino al 1995 l’Unione Europea aveva 12 membri, oggi è partecipata da 28 Stati (27 senza il Regno Unito). Ecco allora che “l’allargamento” è avvenuto.
Sul fronte “dell’approfondimento” si è fatto l’euro, ma gli altri passi sono stati piccoli e lenti. Ancora dobbiamo completare l’Unione bancaria e siamo ben lontani da un bilancio federale Europeo, rimanendo con quello intergovernativo pari all’1% del Pil contro il 25% di Pil del bilancio federale americano.
Sulla base dei dati storici Eurostat in termini di Pil reale pro-capite, dal 2000 al 2018 l’allargamento ha determinato un processo di convergenza tra i vari paesi dell’Unione (catching-up), più forte tra i paesi appartenenti all’euro.
Certamente, questa convergenza avrebbe potuto e dovuto essere più consistente e più accelerata, soprattutto se avessimo avuto un Maastricht più intelligente distinguendo spesa pubblica corrente da investimenti ed una Bce con due occhi come tutte le Banche Centrali del mondo, uno sull’inflazione ed uno sulla crescita. Meno male che, dopo Trichet, Mario Draghi ha aperto i due occhi della Bce.
Pur con questi “peccati originali” però, tutti i paesi sono cresciuti ed i loro redditi pro-capite si sono avvicinati. Non è vero quindi che l’Unione e la moneta unica abbiano avuto effetti divergenti e dirompenti “tra” i vari paesi.
Qualcuno sostiene che i governi nazionali possono fare ben poco perché sono “limitati e forzati” dai vincoli europei, soprattutto nell’area dell’euro. Dai dati storici questa appare una falsa vulgata. Con un Pil pro-capite via via crescente ed in avvicinamento rispetto alla media europea, i governi nazionali avrebbero avuto la possibilità di redistribuirlo in modo più equo tra i propri cittadini senza necessariamente sforare i parametri europei.
Altra falsa vulgata è quella di chi sostiene che con più deficit e più debito si può fare più crescita. Anche su questo i dati storici mostrano che è cresciuto di più chi ha fatto meno debito ed è cresciuto di meno chi ha fatto più debito.
Tra i 19 paesi dell’euro e tra i 28 paesi dell’Unione, l’unica “eccezione” è l’Italia che, dal 2000 al 2018, ha visto “ridursi” il proprio Pil reale pro-capite del -2,3%. Siamo pertanto passati da un reddito reale pro-capite pari nel 2000 al 103% della media dell’Area Euro (120% della media UE) all’86% del 2018 (95% della media UE). Abbiamo cioè perso 17 punti rispetto alla media dei paesi euro e 25 punti rispetto alla media UE.
Questa “anomalia” italiana non risulta collegabile ai parametri europei imposti “dall’esterno”, quanto piuttosto a cause strutturali “tutte interne” all’economia italiana: più bassi investimenti pubblici e privati, più alta spesa corrente, risparmio pubblico negativo (disavanzo di parte corrente), produttività totale dei fattori in declino. Questi andamenti sono stati tutti decisi dai vari governi nazionali e non sono stati imposti dalla Commissione europea. Un esempio concreto: il “vituperato” limite del 3% al deficit pubblico. Ebbene tutti i governi italiani hanno detto a parole di volerlo perseguire e rispettare, ma lo hanno fatto aumentando la spesa corrente, aumentando le tasse ed tagliando a metà gli investimenti pubblici. Questo modo di perseguire l’equilibrio di bilancio si è quindi rivelato “vizioso e controproducente”: ha ridotto la crescita ed amplificato gli squilibri di finanza pubblica. Non è quindi colpa di “altri” se l’Italia è l’unica anomalia dell’Europa. E’ il risultato di nostre decisioni nazionali.
Veniamo ora all’approfondimento, il “deepening” dell’Unione europea. La proposta è quella di fare un piccolo passo in avanti verso l’integrazione ipotizzando un “bilancio aggiuntivo di tipo federale” per circa l’1% del Pil dell’Area Euro pari a 120 miliardi di euro, indicando sia la provenienza delle Entrate sia la destinazione delle Spese. Si tratterebbe pertanto di un bilancio aggiuntivo in pareggio che non implica alcun processo di indebitamento a livello sovranazionale europeo.
Sulla base di simulazioni econometriche effettuate con i modelli Oxford Economics si sono pertanto misurati gli effetti che tale bilancio aggiuntivo determinerebbe sulla Area Euro, sui 19 singoli Stati membri ed anche sugli altri 9 membri dell’Unione non appartenenti all’area dell’euro.
Gli effetti stimati indicano una maggiore crescita che, nei quattro anni considerati, sarebbe pari al +2,4% nell’Eurozona ed al +2% nel totale dell’Unione con impatti positivi anche sui paesi non membri dell’euro, seppur minori rispetto a quelli che si produrrebbero nei paesi dell’euro.
Come detto, con “l’allargamento” i Pil reali pro-capite dei vari paesi si sono avvicinati e si è avuto un processo di convergenza verso l’alto per tutti. Da questi primi risultati emerge che anche il processo di “approfondimento” avvantaggerebbe i paesi che vi partecipano (i paesi dell’euro), ma anche i paesi non partecipanti e non aderenti all’euro.
Dal punto di vista dell’economia reale questo appare come un “gioco a somma positiva per tutti”. Infatti, tutti i paesi avrebbero più crescita, più Pil pro-capite, meno disoccupazione e più occupazione. Questo “gioco a somma positiva” si dimostra a sua volta virtuoso anche sul fronte della finanza pubblica.
Per tutta l’Area Euro il deficit pubblico in rapporto al Pil andrebbe a zero nel 2023, con effetti di riduzione del deficit o di aumento dell’avanzo in tutti i 19 paesi membri. Il debito pubblico si ridurrebbe in percentuale del Pil al 74% (-5% rispetto al 79% che si avrebbe in assenza del bilancio aggiuntivo). La riduzione del debito si produrrebbe in tutti i paesi con in testa Italia e Portogallo. L’Italia passerebbe dal 134% al 127% ed il Portogallo dal 108% al 101%.
Da una parte, i “nazional-sovranisti” sostengono che l’Unione Europea e l’euro hanno disgregato i paesi europei, avvantaggiando alcuni a spese di altri, e propongono un passo indietro verso una sovranità nazionale. Sulla base dei dati storici ufficiali Eurostat queste sono due fake-news.
Dall’altra parte, gli “europeisti-a-prescindere” insistono nel non “toccare” l’Europa intergovernativa che abbiamo avuto finora pensando che si possa andare avanti così. Anche questa è una fake-news. La recente riunione dell’Eurogruppo ne è una palese dimostrazione. Si è vagheggiato di un bilancio aggiuntivo di 22 miliardi per sette anni, poco più di 3 miliardi all’anno, lo 0,0002% del Pil dell’Unione. Si continua cioè a fare le vestali del tempio con il rischio crescente di veder crollare ad una ad una le sue colonne portanti.
L’unica soluzione “ragionata e ragionevole” è allora quella di fare un passo in avanti, magari piccolo come quello di un bilancio aggiuntivo dell’1% del Pil (cioè 120 miliardi all’anno e non i 3 proposti dell’Eurogruppo). Sarebbe bene per tutti se la nuova Commissione Europea e l’Eurogruppo definissero questo tipo di agenda per la prossima legislatura.