La sedia mancante in Turchia con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, costretta in un divanetto è una brutta storia che ha suscitato scalpore e commenti. Il tardivo rincrescimento di Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo, appare tanto goffo quanto privo di sostanza. Ci aspetteremmo che a rappresentare l’Europa ci siano uomini non solo preparati, ma ancor prima dotati di buona educazione. E pare difficile immaginare una persona normalmente provvista di questa dote lasciare una signora in piedi, visibilmente smarrita e imbarazzata. Quando poi, da fonti di stampa, si sente dichiarare da Charles Michel che una sua reazione avrebbe compromesso il lungo lavoro diplomatico che aveva preparato la visita, la cosa si fa più grave. Davvero l’Europa si reca ad Ankara con il cappello in mano tanto da lasciare il Presidente della Commissione Europea in piedi per non urtare la suscettibilità del dittatore turco?
FIGURACCE E ABBAGLI
A inizio febbraio l’alto rappresentante Ue per la politica estera e vicepresidente della Commissione Europea, Josep Borrell, si è recato in Russia di propria iniziativa. Durante la sua permanenza a Mosca tre diplomatici europei venivano espulsi, mentre lui dichiarava nella conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri russo che non ci sarebbero state sanzioni da parte dell’Europa in relazione all’arresto del leader dell’opposizione Navalny. Borrell, inoltre, ha tralasciato in quell’occasione di menzionare la guerra in corso nell’Ucraina orientale. La sua visita, è stato detto, ha avuto un impatto tristemente negativo sulla credibilità dell’Europa e della sua diplomazia. The Guardian ha titolato: “L’umiliazione del Capo europeo a Mosca è segno della divisione interna sul tema della Russia”.
Infine Thierry Breton, commissario europeo al Mercato interno e a capo della politica vaccinale europea, a fine marzo nel corso di un’intervista al quotidiano Le Figaro confermava la sua previsione che entro il 14 luglio i cittadini dell’Unione Europea avranno raggiunto l’immunità collettiva contro il coronavirus. Pochi giorni dopo, a proposito di vaccinazioni, il New York Times affermava in un suo articolo che l’azione europea procedeva con una lentezza esasperante. Punteggiata da errori come quello di aver scommesso su AstraZeneca come il vaccino dell’EU per poi sospenderlo o limitarne l’utilizzo, aver sottoscritto cattivi accordi con le case farmaceutiche e subirne il mancato rispetto dei contratti.
NON È SOLO QUESTIONE DI GAFFE
Infilarsi in così poco tempo in tanti pasticci, compromettendo la credibilità dell’Europa e mettendo a repentaglio, con il caso dei vaccini, la salute e il futuro economico del continente, rappresenta un segnale allarmante. In Europa qualcosa non va e da tempo, ma adesso che al ridicolo si affianca il pericolo qualche riflessione bisogna pur farla. Sempre il New York Times lo scorso 2 aprile titolava “Vaccine Fiasco Damage Europe’s Credibility”, facendo notare come la vulnerabilità di una burocrazia con una leadership debole (e qui non risparmiava Ursula von der Leyen) abbia lasciato l’Europa dietro agli Usa e alla Gran Bretagna, per non parlare di Israele. Solo circa l’11% della popolazione europea ha ricevuto almeno una dose di vaccino, contro il 46% della Gran Bretagna e il 29% degli Stati Uniti. Mentre molti paesi europei entrano nuovamente in lockdown, ciò che viene messa in gioco è la reputazione e la credibilità dell’Ue e del suo braccio operativo, la Commissione Europea. Ma non sono solo i piani vaccinali a essere in ritardo.
LA LENTEZZA DELLE POLITICHE DI RIPRESA ECONOMICA
L’Europa, che ha nel frattempo perso l’UK, la quinta potenza economica mondiale, e già prima della pandemia stava registrando tassi di crescita declinanti e quote decrescenti nel mercato mondiale, non ha idee né piani su come uscire dalla crisi determinata dal Covid 19. Sì, è vero, ci sono un titolo (Recovery Fund), delle cifre (750 miliardi di euro: un importo giudicato limitato da molti osservatori internazionali, sebbene si tratti del più grande piano di aiuti mai varato dall’Ue), una leadership a cui è affidato il compito di avviare il piano (ed è la stessa da cui siamo partiti). Cosa accadrà?
Difficile da dirsi. Mentre l’amministrazione Biden in meno di due mesi dalla sua elezione fa approvare al Senato americano un piano di stimoli del valore di 1.900 miliardi di dollari, il Next Generation Eu, quello che tutti chiamano Recovery Fund, ha iniziato il suo iter nel maggio del 2020. I paesi devono inviare entro aprile i piani definitivi alla Commissione Europea e successivamente dovrà pronunciarsi il Consiglio Europeo. È possibile che i primi soldi siano distribuiti nella seconda parte del 2021, ma forse non a tutti e probabilmente nemmeno per intero. Questo piano di aiuti, infatti, si divide tra sussidi (390 miliardi), finanziati attraverso meccanismi comuni, e prestiti (360 miliardi) che i singoli paesi dovranno invece ripagare direttamente. Per ora solo Grecia, Ungheria, Slovenia e Italia pensano di fare ricorso a questa seconda parte.
LE INSIDIE DIETRO IL RECOVERY PLAN
Nel frattempo, la Corte costituzionale tedesca ha sospeso la ratifica del Recovery Plan in base a una richiesta di movimenti locali preoccupati che alla fine possano dover essere i paesi più forti, Germania in primis, a ripagare i debiti dei paesi meno sobri. Molti osservatori affermano che il problema sarà risolto, ma per ora è tutto bloccato, giacché senza la ratifica di tutti i 27 paesi aderenti la Commissione europea non può erogare i 750 miliardi di euro.
E filerà veramente tutto liscio? A parte il tema della riforma del Patto di Stabilità e delle elezioni politiche tedesche del prossimo settembre, segnali preoccupanti giungono anche dalla Bce. In vista della riunione di Consiglio del 22 aprile, qualcuno sta iniziando a premere per porre fine al programma di stimoli monetari da 1.850 miliardi denominato Pepp. Si tratta dei governatori delle banche centrali del Nord Europa: Austria, Olanda e anche Germania. Insomma, non sembra proprio ci sia allineamento tra i paesi europei, che con il passare del tempo mettono in evidenza più le loro diversità che le proprie basi comuni.
DIVARI PERICOLOSI NELLE ATTESE DI CRESCITA
Nel frattempo l’Ocse rivede al rialzo il Pil degli Usa alla luce del piano Biden (+6,5% nel 2021 rispetto al + 3,2% delle stime di dicembre). Del programma straordinario di aiuti americano beneficerà anche l’Europa, grazie all’incremento atteso nella domanda di beni di consumo, che si trasformerà in maggiori importazioni. Il ritocco delle stime per l’Europa (+3,9% rispetto al precedente + 3,6%) sta tutto nel contributo che verrà dagli Usa.
Le previsioni per l’Italia, invece, sono state riviste al ribasso: + 4,1% rispetto al +4,3% precedente. In Germania il Pil è atteso in crescita del 3% soprattutto grazie alla prevista riapertura delle attività nel periodo primavera-estate e al successo del piano vaccinale. Poiché le cose non stanno andando come dovrebbero, tale obiettivo non è detto possa essere raggiunto, seppure stiano arrivando dei primi segnali incoraggianti. Se dovesse venire a mancare una robusta ripresa tedesca, sarebbe una brutta notizia per tutta l’eurozona e per l’Italia in particolare, che destina alla Germania circa il 13% del proprio export. Da notare che il peso delle esportazioni verso i paesi nordici, ostili alle politiche di sostegno, è abbastanza trascurabile. Come dire che da essi non giungono aiuti significativi nemmeno sul piano dell’economia reale.
Come spesso si è scritto di questi tempi, la pandemia ha avuto l’effetto di accelerare processi già in corso da tempo. Lo si è detto in relazione alle forme del lavoro, all’aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, all’importanza crescente del mondo digitale.
UN FUTURO INCERTO PER L’EUROPA
Nel contesto in cui scriviamo, tale accelerazione pare prendere forma in un aumento del distacco tra l’economia Usa (per non parlare di quella cinese, attesa in crescita del 7,8%) e quella europea, che si porta dietro anche una sua progressiva marginalizzazione politica. Gli spazi per cambiare appaiono limitati come pure il tempo per farlo. Da qui in poi, senza mutamenti al momento non visibili, la situazione dell’Europa potrebbe addirittura peggiorare, considerando che le erogazioni del Recovery Fund, di cui di cui il governo centrale europeo ha una regia solo formale, potrebbero aumentare le distanze tra gli stati membri (ne abbiamo già visto i segnali) ed accrescere gli egoismi nazionali.
Solo una sua effettiva centralizzazione salverebbe l’Europa e i suoi stati. Una nuova responsabilità politica ed economica sovranazionale, che definisca obiettivi ed entità degli investimenti, priorità e tempi di attuazione, avendo come scopo principale un rapido e forte recupero di un’egemonia economica dell’intero continente. Viene da chiedersi se ciò sia possibile, anche considerati i seri problemi di credibilità e competenza che la gestione centrale Ue ha messo recentemente in evidenza.
L’UE ORFANA DI MERKEL, DRAGHI LEADER EUROPEO
Molti commentatori negli ultimi mesi avevano preannunciato questo rischio riferendosi all’imminente uscita di scena di Angela Merkel: “We’re not ready for Europe after Merkel”, titolava un articolo di Politico del gennaio scorso. Negli ultimi mesi la Cancelliera tedesca è riuscita ad aggregare attorno a sé l’Europa sino a farla convergere sul Recovery Fund, a concludere l’accordo commerciale con la Gran Bretagna e quello sugli investimenti con la Cina.
La maggior parte degli osservatori è d’accordo sul fatto che il presidente francese, Emmanuel Macron, non abbia la stessa autorevolezza e capacità di vedere oltre i confini del proprio paese. In questo quadro, il nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi, viene sempre più chiamato in causa come possibile nuovo attore di un rilancio europeo. Ha salvato l’euro, creato una reale unione monetaria e messo la Bce al centro del sistema di supervisione bancaria europea. Proprio in occasione di quest’ultimo evento, nel 2014, durante il suo discorso introduttivo, affermava: “La nostra responsabilità verso il popolo di questo continente è di mettere in atto un modello economico sostenibile che aiuti ad aumentare l’occupazione e ad accelerare la crescita”.
Sono questi i passi necessari alla reale unificazione dell’Europa. Ora che il tempo sta per scadere, un personaggio della sua autorevolezza e per di più abituato a lavorare in situazioni di emergenza, come l’esperienza in Bce ci ha mostrato, rappresenterebbe una concreta via d’uscita dall’impasse attuale. A ben vedere, probabilmente l’unica.
Fabio Menghini autore del libro “È già domani: economia, lavoro e salute prima e dopo la pandemia” (goWare)
Lucida analsi sulla situazione critica che l’Europa sta vivendo in questo periodo. Cosa ne pensate?
Buonasera Federica,
Buona domanda. A mio avviso Menghini tocca i tasti giusti. L’ Europa sconta l’incapacità di definire centralmente regole univoche per tutti i paesi e a porsi dunque come interlocutore unico all’esterno. Ciò è dovuto alla struttura e alla governance, i singoli paesi inseguono i propri interessi nazionali a fini elettorali e non hanno dunque intenzione di cedere sovranità. A ciò aggiungiamo l’assenza di campioni farmaceutici europei (intesi in zona euro) che producono vaccini e si giunge secondo me ad una situazione di stallo. Un saluto
Buongiorno Maria Paola,
grazie per la risposta, concordo. Questa visione rimane a mio avviso miope e sul lungo periodo estremamente controproducente.
Un saluto
Informato, attuale e innovativo. Punto di vista di Menghini come sempre iluminante, sia nell’articolo che nei libri, per capire meglio la situazione attuale e i cambiamenti in atto!