Avevo un legame speciale con Sergio Pininfarina. Lavorare al suo fianco durante gli anni della presidenza di Confindustria è stato entusiasmante, faticoso, a volte stressante, ma ricco di insegnamenti su cosa vuol dire assumersi le responsabilità di essere classe dirigente in un paese perennemente in bilico tra lo stare in Europa e la tentazione di avvicinarci alla sponda africana.
Pininfarina era un piemontese con tutti i pregi ed i difetti dei piemontesi vecchio stile. Aveva un alto senso dello Stato, sapeva quali erano gli obblighi dell’imprenditore nei confronti della propria azienda e della comunità in cui viveva. Amava il lavoro ben fatto, ma era anche pignolo e preciso come lo sono appunto i veri piemontesi. Era orgoglioso di aver saputo continuare l’opera del padre che aveva fondato la carrozzeria Farina unendo l’abilità artigianale alla cultura delle forme di design. Sotto la sua guida la fabbrica era cresciuta e si era affermata nel mondo. Il suo nome, cambiato in Pinin-Farina in onore del fondatore, era diventato sinonimo del bello e dello stile italiano. Andava orgoglioso delle Ferrari al cui successo le sue carrozzerie avevano dato un contributo non secondario.
Ma era stato sempre anche un uomo pubblico, dedicandosi a rappresentare gli interessi non solo degli imprenditori ma anche della comunità a cui apparteneva. Più volte presidente dell’Unione degli industriali di Torino e poi deputato europeo, nell’1988 fu chiamato a presiedere la Confindustria dopo il quadriennio di Luigi Lucchini che aveva segnato la riscossa dell’industria italiana dopo il periodo critico degli anni settanta caratterizzato da alta inflazione e da perdita di competitività sui mercati internazionali. Pininfarina si trovò ad affrontare gravi problemi dovuti alla crescente espansione della macchina dello Stato ed alla parallela perdita di efficienza del settore pubblico che era restio a qualsiasi riforma capace di inserire elementi di mercato anche in settori protetti da qualsiasi concorrenza. Sullo sfondo si cominciava a intravedere il dilagare del fenomeno della corruzione che difatti di lì a poco portrò all’esplosione di Tangentopoli.
Più volte la Confindustria fu costretta a richiamare il sistema politico di allora a prendere atto della necessità di profonde riforme. Ma Andreotti che era presidente del Consiglio, si dimostrò cieco e sordo di fronte alle nuvole nere che si andavano addensando sul nostro orizzonte. E’ di quell’epoca la celebre frase “meglio tirare a campare che tirare le cuoia” e lo scontro in un convegno dei giovani industriali a Capri quando di fronte alle critiche, Andreotti perse la pazienza ed invitò di imprenditori ad andarsi a prendere i voti per poter fare tutto quello che dicevano essere indispensabile per salvare il paese. La conseguenza dell’accumulo degli squilibri a cui non si volle metter mano fu poi la svalutazione della lira e le drastiche misure di austerità imposte dal Governo Amato nel 1993. Sul piano politico la DC perse le elezioni che videro per la prima volta la grande affermazione del fenomeno leghista al Nord dell’Italia.
Sul fronte sindacale le cose non erano più facili. Però Pininfarina, dopo un lungo braccio di ferro riuscì sul finire del 1991 a bloccare la scala mobile aprendo così la strada alla sua definitiva cancellazione avvenuta con Ciampi quasi due anni dopo.
La Confindustria allora era forte. Le imprese industriali private, per quanto un po’ malaticce, rappresentavano una fetta rilevante della nostra economia. Quelle pubbliche si dibattevano in una crisi profonda che portò nel giro di pochi anni alla loro privatizzazione ed alla scomparsa dell’IRI. Soprattutto la Confindustria poteva rivendicare la propria diversità rispetto ad una gestione politica che appariva in grave ritardo nel promuovere il processo di modernizzazione del paese. Nonostante le molte contraddizioni che esistevano anche nel settore privato, la Confindustria riusciva ad esprimere una linea di fermo appoggio all’apertura dei mercati, all’aumento della concorrenza non solo nel manifatturiero ma anche nel settore dei servizi. Allora si stava lavorando in Europa per il mercato unico e Pininfarina che conosceva bene i meccanismi di Bruxelles, esercitò tutta la sua influenza per portare il più avanti possibile l’apertura delle frontiere e l’abolizione dei tanti ostacoli tariffari e normativi alla libera circolazione delle merci e delle persone.
Ma la diversità non era solo a parole. Era anche praticata. Confindustria tenne fede all’impegno assunto nel 1975 da Agnelli in qualità di presidente dell’Associazione degli industriali, di fare del Sole 24 Ore non un organo dell’associazione ma un grande giornale libero, che potesse rappresentare tutta l’economia italiana e soprattutto essere il cane da guardia del mercato contro tutti coloro, industriali compresi, che operavano nel tentativo di limitare la concorrenza. Stessa filosofia ispirava il sostegno dato alla Luiss, una Università messa a disposizione del Paese con lo scopo non di indrottinare i giovani al verbo Confindustriale, bensì con l’obiettivo di formare la futura classe dirigente sia pubblica che privata secondo i dettami delle più moderne tendenze culturali.
A distanza di vent’anni si può ben dire che il sogno di Pininfarina di creare un paese più moderno,capace di valorizzare le grandi energie individuali attraverso la meritocrazia, con uno Stato più snello, ma più efficiente ed anche più severo contro chi viola le regole, non si è concretizzato. Ci troviamo ancora a dover combattere contro i nostri vecchi vizi di un settore pubblico costoso ed inefficiente. Ma quelle battaglie hanno dato testimonianza che un destino diverso per il nostro Paese è possibile e che esso sarebbe sicuramente migliore di quello che per insipienza e cinica furbizia, abbiamo continuato a costruirci. E per cambiare finalmente rotta, cosa ancora possibile,non dobbiamo dimenticare l’insegnamento che Sergio Pininfarina ci lascia in eredità.