Negli archivi della Rai, rispolverato ogni tanto nei palinsesti di storia e costume, c’è il viaggio-inchiesta sulla Pirelli che Giulio Macchi girò nel 1963, quando la Bicocca era un immenso quartier generale di pneumatici e cavi ai confini con le ciminiere della Breda e le acciaierie della Falck di Sesto. Era la Milano delle grandi fabbriche, tutta industria e manufatti, l’immagine più autentica del miracolo italiano che in quegli anni aveva raggiunto il suo apogeo.
Alla guida della Pirelli c’era ancora Alberto Pirelli, che con orgoglio mostrava alle telecamere i trentadue piani del nuovo grattacielo che, grazie alla magia di Giò Ponti, era sorto di fronte alla stazione Centrale fino a superare in altezza lo stesso Duomo. Al suo fianco, pronto a prenderne l’eredità, c’era suo figlio, Leopoldo Pirelli, allora trentottenne, che Macchi intervistò ai piedi del Pirellone. Intervista che rivela fin da allora quello che fu lo stile e la classe con cui Pirelli – del quale ricorre in questo gennaio il sesto anniversario della scomparsa – interpretò il ruolo di imprenditore-capo nei quasi trent’anni che guidò il gruppo, dal 1965 fino al 1992.
“Ingegnere, allora per l’intervista ci rivediamo verso le tre..” – a un certo punto gli disse Macchi. Macchi, lombardo di nascita ma che da anni viveva a Roma, non fece a tempo a finire la frase che si sentì cortesemente ma perentoriamente ribattere: “Ci vediamo alle tre. Qui in Pirelli si fa così. Da noi c’è un’ora precisa, senza verso e senza circa”. E questo senso rigoroso della puntualità lo accompagnò sempre nella sua vita.
E una lezione in materia toccò anche a un giornalista del Sole-24 Ore, che ero io, quando Leopoldo Pirelli, nel 1999, decise di lasciare tutti gli incarichi passando a Marco Tronchetti Provera anche la presidenza della Pirellina. L’ingegnere aveva deciso di incontrare nel suo ufficio di via Negri, uno per volta, un’ora esatta per ciascuno, i giornalisti delle maggiori testate che avevano seguito le vicende della sua Pirelli.
Appuntamento alle 12 in punto, quando arrivai davanti all’ingegnere Leopoldo, l’orologio appeso alla parete di fronte alla scrivania di Pirelli segnava le 12.05. L’ingegnere, dopo una cordialissima accoglienza, si mise a raccontare la sua vita, i suoi successi ma anche le sfortunate campagne per scalare prima Firestone e poi Continental. Espresse grande stima per Cuccia e Mediobanca, la bankhaus di famiglia, anche se nell’avventura tedesca che portò alla sua uscita dal comando della Pirellona qualcosa non aveva funzionato nella storica alleanza . Ribadì la piena fiducia in Tronchetti e nella sua leadership: l’unica cosa che non condivideva delle azioni intraprese dall’ex genero – l’operazione Telecom sarebbe avvenuta due anni più tardi – era la sponsorizzazione dell’Inter. “Per me che tifo da sempre Milan, mi può capire…”.
Disse poi che continuava a diffidare di Martin Ebner, il finanziere svizzero che divenne partner di minoranza della Pirelli quando venne accorciata da Tronchetti la catena di controllo con la sparizione della Pirelli Internationale di Basilea. Pirelli non dimenticava come un giorno di tanti anni prima Ebner avesse tramato per impossessarsi del gruppo. Da allora Pirelli non volle più vederlo. L’ingegner parlò poi di vela, la sua passione; del ruolo di suo figlio Alberto nel gruppo; di come immaginava la Pirelli nel millennio che stava per arrivare, e altro ancora. Pirelli guardò l’orologio. Era arrivata l’una. “La devo congedare”, disse. “Un vero peccato. Con lei ingegnere oggi sarebbe stato bello soffermarsi per ore”, gli risposi. E lui sempre gentile ma secco: “Avremmo parlato cinque minuti in più se fosse arrivato puntuale”.
Mi concesse qualche secondo in più solo per spiegarmi di aver imparato ad esser puntuale da quando ancora poco più che ventenne arrivò alla Scala a spettacolo iniziato. “A cercare il posto in platea, tra la gente già seduta, provai un disagio e un imbarazzo che non ho mai più dimenticato”.
Pirelli morirà il 23 gennaio 2007. All’incirca nelle stesse ore quattro anni prima, la mattina del 24 gennaio 2003, era scomparso stremato dalla malattia, Gianni Agnelli. Il destino in qualche modo ha voluto di nuovo accomunare nel loro addio alla vita i due personaggi simbolo della grande industria privata del dopoguerra, leader indiscussi del capitalismo italiano sotto la tutela di Cuccia e Mediobanca, bersaglio folkloristico della contestazione e delle lotte sindacali degli anni Settanta al grido di “Agnelli, Pirelli, ladri gemelli”. Personaggi e stagioni di un’Italia industriale che non c’è più.