Tenere assieme il diavolo e l’acqua santa è da sempre una specialità emiliano-romagnola e consiste nell’abilità di prendere quel che di buono c’è da una parte e dall’altra, facendo dialogare fra loro mondi apparentemente inconciliabili. Dalla sintesi di questa dialettica nasce un diverso modo di governare; non è da tutti mettere d’accordo Peppone e Don Camillo, impresa e lavoro, come i governi locali hanno spesso saputo fare negli ultimi decenni. Questa volta la scommessa è conciliare federalismo e centralismo, sottraendo argomenti alla Lega, rilanciando il ruolo delle Regioni grazie a una maggiore autonomia, anche fiscale, sfruttando le norme esistenti, senza mancare di rispetto al governo centrale.
L’idea di base è che l’Emilia-Romagna, in quanto regione virtuosa, può gestire in piena autonomia quattro materie ricche di sostanza: “lavoro e formazione”; “imprese, ricerca e sviluppo”; sanità e welfare”; “ambiente e territorio”. La copertura finanziaria dovrebbe arrivare dalle tasse che, invece di finire tutte a Roma, resterebbero in parte in loco. Nel linguaggio di un documento licenziato dalla Giunta regionale questa voce è così spiegata: “Nell’ambito del negoziato con il Governo verranno definite le risorse necessarie alla copertura delle funzioni richieste. La Regione propone la propria compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al suo territorio”.
Una rivoluzione neanche tanto soft che passa attraverso il comma 3 dell’articolo 116 della Costituzione, lo sbocco è il cosiddetto “regionalismo differenziato”, fino ad oggi lettera morta. L’idea non è nuova, ma visto che non c’è niente di più nuovo di una notizia vecchia, soprattuto se a metterla in pratica sono una serie di amministratori Pd, cresciuti in una terra che è spesso stata un laboratorio politico, la questione va presa molto sul serio. Il Governo Gentiloni sembra averlo fatto e a metà ottobre si dovrebbe aprire il tavolo delle trattative, per arrivare a un disegno di legge governativo da approvare a maggioranza assoluta da entrambe le Camere.
L’iter è impervio, ma quando si tratta di soldi, autonomia e Costituzione, in Italia non si scherza. Il nemico giurato di questo percorso è il tempo, perché la scadenza della legislatura incombe, perciò si procede il più speditamente possibile. Prima del passaggio a Roma, la Giunta regionale, che ha già approvato il documento di indirizzo con la richiesta di maggiore autonomia, deve ottenere anche il via libera dall’Assemblea nelle riunioni del 25-26 settembre. Se la corsa a ostacoli dovesse finire bene, potrebbe bruciare, nei tempi e nei contenuti, i referendum leghisti di Lombardia e Veneto, svuotandoli in parte del loro peso politico. Sarebbe un bel sorpasso a sinistra per il presidente emiliano Stefano Bonaccini, che ha bollato le due consultazioni come “soldi buttati via”. Il sasso della proposta emiliana venne lanciato la prima volta, proprio dal Governatore a metà luglio.
Sede prescelta per muovere le acque dello stagno fu Confindustria Emilia-Romagna. E poiché c’è da tenere assieme il diavolo e l’acqua santa, Bonaccini spiegò: “Non vogliamo scassare l’unità nazionale o parlare di cifre impossibili, come fanno altre Regioni. Vogliamo fare una cosa equilibrata. Penso che sia la strada giusta, prudente, ma mettendo i piedi nel piatto”. Prima di lanciare qualche cifra è stato compiuto un percorso, nella consapevolezza che l’Emilia-Romagna è un territorio che, grazie alle sue performance, “può chiedere e pretendere strumenti previsti dalla Costituzione che ci facciano crescere ancora di più, perché qui sappiamo come utilizzare le risorse al meglio”.
L’ingegnoso Governatore non ci ha messo molto a raccogliere consensi: prima dal suo partito, poi dai sindaci e dagli amministratori, quindi dalle parti sociali. Persino il collega Luca Zaia, presidente leghista del Veneto, forte dell’appoggio del Pd locale al Referendum consultivo nella sua regione, ha fatto i suoi auguri a Bonaccini, condendoli però con un sorriso ironico: “Ora, a fine legislatura, si vuole aprire una trattativa per far vedere che si può parlare di autonomia, ma da quando esiste l’articolo 116 della Costituzione nessuna Regione ha mai ottenuto niente”. Comunque “tifo perché l’Emilia-Romagna abbia tutto il 116, perché il giorno dopo il referendum noi chiediamo di più. Il loro risultato diventa base contrattuale”.
Più pungente il presidente della Lombardia, Roberto Maroni: “Si può lasciare al Governo di decidere se dare autonomia o no, in passato non è mai successo. Al massimo il Governo ti può dare qualche competenza in più, con un po’ di risorse. Ma io non voglio qualcosina. Io voglio andare dal Governo col popolo lombardo dietro di me”.
Bonaccini però non molla e se la politica è l’arte della mediazione, persino i Referendum potrebbero giocare a suo favore. Anche le città sono con lui. Per il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli: “Meritiamo fiducia e sono ipotizzabili forme di autonomia fiscale che ci consentano di decidere direttamente come utilizzare parte del gettito per assicurare equità e crescita”. Il capoluogo scalpita: “Bologna ha molte cose da dire a riguardo – sostiene l’assessore all’economia Matteo Lepore – rappresentando per la Regione una piattaforma di relazioni, infrastrutture, presidi produttivi e scientifici tra i più importanti in Italia”. Insomma nel Pd delle aree virtuose c’è voglia di sfruttare di più e meglio quanto si produce sul territorio. Con un occhio alle elezioni, ma anche guardando oltre.