L’Emilia-Romagna, dove il 26 gennaio si vota per rinnovare il Consiglio regionale, non è soltanto l’ultimo baluardo della sinistra ma è anche la locomotiva economica d’Italia. Nessuna regione cresce come l’Emilia-Romagna ed è un peccato che la campagna elettorale si sia concentrata più sui riflessi nazionale del voto, che in un senso o nell’altro sicuramente ci saranno, che sulla realtà economica della regione e, ancor di più sull’originalità del Modello emiliano e sull’importanza che la politica non faccia deragliare la locomotiva. Ma di chi è il merito del successo emiliano? Delle imprese, che rappresentano il cuore del Made in Italy e del Quarto capitalismo delle medie imprese, o della Giunta del Governatore Stefano Bonaccini (Pd) che me ha assecondato lo sviluppo? FIRSTonline lo ha chiesto a uno degli economisti industriali più esperti, Franco Mosconi, già allievo di Romano Prodi e oggi Professore di Economia e Politica industriale dell’Università di Parma, che fin dal 2008-9 lanciò un ampio progetto di ricerca sul campo su quella che ancora oggi chiama “la metamorfosi del modello emiliano” che è diventata anche un libro omonimo. Ecco il pensiero di Mosconi alla vigilia di un voto attesissimo destinato a influire tantissimo sulla vita dell’Emilia-Romagna ma anche a fare da spartiacque della politica nazionale.
Professor Mosconi, in tanti dicono che oggi l’Emilia-Romagna è la locomotiva d’Italia. Ma è davvero così? Con quali numeri l’economia dell’Emilia-Romagna si presenta alle elezioni regionali del 26 gennaio?
“Proprio lunedì scorso sono usciti i dati di Prometeia per Unioncamere Emilia-Romagna, che confermano per il 2019 un saggio di crescita del Pil di questa regione (0,5%) superiore a quello nazionale (0,3%). Ma, si sa, l’anno che si è appena concluso è stato un anno assai difficile per tutti, dato il contesto europeo (rallentamento della Germania, Brexit) e internazionale (guerra dei dazi). Ancor più importante allora, per avere la giusta prospettiva, è ciò che è accaduto nel biennio precedente (2017-2018) quando l’Emilia-Romagna è cresciuta a un saggio medio annuo superiore fra l’1,5% e il 2%, con l’Italia inchiodata all’1% (e anche meno). E quello che accadrà nei due anni successivi, con la previsione Prometeia-Unioncamere di cui dicevo prima: 0,8% nel 2020, 1% nel 2021. Certo, non è una crescita stratosferica neppure qui per i noti mali che affliggono l’economia italiana, ma vale a confermare per l’Emilia-Romagna il ruolo di locomotiva del Paese”.
Quali sono i driver della crescita dell’Emilia-Romagna?
“Sono essenzialmente due. Primo, l’aver saputo conservare e per certi versi irrobustire la base manifatturiera (che vale il 27% del valore aggiunto regionale). Secondo, e strettamente correlato al primo, la straordinaria propensione all’export delle imprese manifatturiere (il rapporto export/PIL in Emilia-Romagna è pari al 40%)”.
Quali sono i fattori che hanno fatto dell’Emilia-Romagna un luogo d’eccellenza del Made in Italy delle medie imprese del Quarto capitalismo?
“L’incessante sforzo in quelli che il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un suo bel libro pubblicato col Mulino qualche anno fa, chiama “investimenti in conoscenza”: R&S, capitale umano, ICT”.
L’Emilia-Romagna riesce anche ad attrarre investimenti esteri?
“Sì, anche se i margini di miglioramento non mancano. E quello che colpisce più della quantità degli IDE in entrata (flussi degli ultimi anni e stock accumulato) è la loro qualità, nel senso che sono arrivati investimenti molto mirati mediante i quali grandi imprese multinazionali straniere hanno rafforzato il loro core business. Valga per tutti l’esempio di Audi-Vk con Lamborghini, prima, e Ducati, poi. Ma ve ne sono molti altri nella meccanica/meccatronica, nella chimica, nell’e-commerce, nelle piastrelle di ceramica, nel biomedicale”.
A chi va il merito della crescita record del Pil dell’Emilia-Romagna? Alle imprese o anche alla Regione?
“A tutte e due, tenuto conto dei diversi spazi di manovra: le imprese sono naturalmente immerse nel mare aperto della concorrenza internazionale (e sanno nuotare molto ma molto bene); la regione ha solo le competenze proprie di una regione a Statuto ordinario nell’ambito del “regionalismo” italiano, e non ha certo i poteri di un Land tedesco dove la struttura istituzionale è di tipo ‘federale’.”
Che cosa ha fatto la Giunta Bonaccini per sostenere lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione regionale e che cosa dovrebbe fare se sarà confermata? Quali sono le priorità di domani?
“Ha istituito gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), che per giudizio condiviso rappresentano una delle migliori esperienze italiane di formazione post-diploma parallela all’università, plasmata proprio sul modello delle Fachschule tedesche (“Special training school”). E ha istituito la rete dei Tecnopoli. La nuova frontiera è ora quella della “Data Valley” imperniata su Bologna. Ha altresì approvato una legge sull’attrazione di investimenti. E si è fatta promotrice del “Patto per il lavoro” firmato nel 2015 con tutti gli attori della vita economica e sociale (anche qui, dopo il grande crac, la disoccupazione salì verso il 9-10%, mentre oggi è al 5,2%). Ma le diseguaglianze sono in aumento anche in Emilia-Romagna: combatterle con maggiore decisione deve essere una delle priorità della prossima legislatura. La sanità funziona molto bene, come tutte le graduatorie indipendenti confermano. Tuttavia, non basta nel mondo (e nell’Emilia-Romagna) d’oggi avere imprese, università, ospedali – e l’elenco potrebbe continuare – promossi a pieni voti, giacché l’esclusione sociale e le nuove povertà sono fenomeni insidiosi, che tolgono dalla normale dinamica economico-sociale migliaia e migliaia di persone. A loro occorre arrivare con nuovi strumenti di welfare e inclusione sociale”.
Quanto conta per lo sviluppo della regione la presenza di Università e di centri di ricerca (da Prometeia a Nomisma, solo per citare qualche esempio) di eccellenza?
“Moltissimo. Aggiungerei anche le due grandi e prestigiose case editrici bolognesi, Il Mulino e Zanichelli, oltre ad altre più piccole disseminate lungo la Via Emilia”.
Milano è oggi considerata, per il suo sviluppo e per la sua apertura internazionale, la vera capitale d’Italia: che rapporto c’è tra il modello Milano e il modello emiliano? Collaborazione o competizione?
“Collaborazione, non c’è dubbio: difatti, parliamo di due modelli (uno più concentrato nella città capoluogo, l’altro più diffuso sul territorio e policentrico) che condividono l’apertura agli altri. Che credono in società aperte. Senza l’asse Milano-Bologna-Via Emilia che Italia, oggi, sarebbe?”.
Il modello emiliano è esportabile in altre zone d’Italia?
“Bella domanda, ma molto difficile. Ci sono dei fattori difficilmente replicabili, quali l’elevato “capitale sociale” (che significa, tra le altre cose, basare le relazioni sulla fiducia reciproca) e una spiccata attitudine a cooperare fra i diversi soggetti. A ben vedere, quello che si potrebbe tentare di esportare è la consolidata pratica di fare insieme – fra pubblico e privato – le cose utili al progresso della comunità. Tutte le iniziative che dianzi menzionavo a favore dell’economia reale (ITS, ecc.) sono figlie di questa cultura”.
Quanto hanno contato per l’Emilia-Romagna le innovative politiche industriali nazionali della scorsa legislatura riassunte nel programma Industria 4.0 e quanto conta il rallentamento che hanno subito in questi ultimi anni?
“Sono state molto importanti sia in senso congiunturale (gli investimenti fatti con l’iper e super-ammortamento e il credito d’imposta del Piano Industria 4.0), sia in senso strutturale (le province dell’Emilia centrale sono fra le capitali della “meccatronica” italiana, che già da decenni ha saputo fondere meccanica ed elettronica). Il rallentamento dei programmi governativi? Beh, il treno della manifattura di qualità emiliano-romagnola marcia spedito: immaginiamo per un istante che treno ad alta velocità sarebbe potendo contare su una – cito – “moderna politica industriale”. Già, quella che hanno in Germania e che ha una prospettiva temporale, sia per “Industrie 4.0” sia per altri strumenti, rivolta al 2030”.