Sono passati cinque anni esatti da quelle immagini in cui i dipendenti uscivano dal grattacielo di Lehman con gli scatoloni in mano. Era il 15 settembre del 2008, e come quest’anno era domenica. Da allora nulla è come prima. Non lo è per la Banca d’affari che, fallita, si è vista smembrata dall’acquirente Nomura (simboleggiando una conquista, tante volte temuta negli anni ottanta, da parte dei samurai). Ma non lo è neanche per l’intera finanza mondiale. Come ci si poteva aspettare, quando il crack avviene al centro del sistema finanziario, lo sconquasso è gigantesco ed è molto difficile trovare soluzioni.?
Lasciando fallire Lehman si scatenarono i timori più cupi. I mercati di tutto il mondo entrarono in una fibrillazione senza precedenti. E ci vollero mesi e mesi, anche dopo che era divenuto chiaro che nessun altro grande intermediario sarebbe stato lasciato fallire, prima che tornasse una calma relativa.
Nel frattempo però si erano messe in moto le condizioni per una poderosa recessione globale. Gli studiosi più accorti, come Eichengreen e O’ Rourke (su www.voxeu.org), avevano anche avviato un monitoraggio di come la crisi attuale somigliasse alla Grande Depressione degli anni Trenta.?Per nostra fortuna, rispolverando prontamente quel Keynes disdegnato a lungo, le politiche economiche interventiste hanno sventato la continuazione del monitoraggio (un capitolo a parte andrebbe dedicato, come fa Paul Krugman nella sua magistrale rassegna sulla New York Review of Books di giugno scorso, agli effetti nefasti del rigurgito liberista alla base delle politiche di austerità, ma ciò ci porterebbe troppo lontano da Lehman).
Tuttavia, a distanza di cinque anni, si deve riconoscere che non è stato fatto abbastanza per risolvere quei problemi che allo scoppio di Lehman avevano portato.? Anzi, si ha l’impressione che gran parte della finanza sia tornata ben presto al “business as usual”. ?Perciò, la grande paura indotta dal crollo di Lehman è stata sostanzialmente sprecata, anziché approfittarne per una catarsi che, mediante un’appropriata ri-regolamentazione, riportasse la finanza al servizio dell’economia (da un assetto perverso con l’economia al servizio della finanza).
Si è ricordato?altre volte (“Per salvare l’Europa ci vorrebbe un Cuor di leone e un mese da Pecora”, su Firstonline del 10 giugno 2012) il ruolo della Commissione Pecora che, nel 1933, svelando i misfatti dell’alta finanza negli anni ruggenti, generò quel sostegno di opinione pubblica necessario ad approvare il Glass-Steagall Act e le altre leggi che separarono le banche commerciali (e i loro depositi) dalle banche d’investimento (e i loro rischiosi investimenti finanziari). Fu così che Main Street vinse allora su Wall Street, cioè la separazione sgonfiò la finanza rampante e riportò il sistema finanziario al servizio dell’economia reale, contribuendo a lungo andare a creare occupazione, ridurre le disuguaglianze e sostenere la grande classe media americana. E, nel Novecento, il secolo americano, ciò poi avvenne pressoché ovunque nel mondo sviluppato.
Nella fase attuale, quei provvedimenti sono mancati. Nonostante il diffondersi del movimento “Occupy Wall Street”, Main Street non è riuscita a prevalere su Wall Street. Questa volta non c’è stato nessun Ferdinand Pecora e, come evidenzia l’agile prosa di Giuliana Ferraino (Corsera, 12 c.m.), i protagonisti top dei disastri finanziari del 2007-09 non hanno pagato e si godono tranquillamente ricchezze accumulate in modo quanto mai discutibile.
Del resto, a un anno dal fallimento di Lehman, lo stesso presidente Obama si recò a Wall Street quasi per esorcizzarne gli eccessi. Ma negli anni, pur riconfermato per il secondo mandato, Obama ha visto un’America ancora fragile tanto che, nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione, ha rilanciato l’obiettivo di rafforzare la classe media. Se la storia ci insegna qualcosa, quell’obiettivo non sarà conseguito senza prima riportare la finanza al servizio dell’economia.
Nelle scorse settimane lo stesso Obama ha poi incontrato alla Casa Bianca i principali responsabili della regolamentazione finanziaria invitandoli ad accelerare nella messa in opera delle nuove regole (Dodd-Frank Act) al fine di evitare una nuova crisi finanziaria del tipo sperimentato nel 2008. Questo non è un bel segnale. Infatti, le azioni di lobbying, di ostruzione e di aggiramento delle nuove norme ne hanno rallentato e in qualche misura svuotato l’impatto.
La leva delle principali istituzioni finanziarie resta troppo elevata a giudizio di molti. Infatti, tra il 2007 e oggi, le principali sei banche più grandi (in ordine: JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs, Morgan Stanley) hanno sì raddoppiato il capitale ma nel frattempo anche il totale del loro passivo è cresciuto di quasi il 30%, di modo che il loro particolarmente basso capital ratio iniziale è aumentato solo della metà.
Di più, a preoccupare non è solo una capitalizzazione ancora insufficiente. L’ulteriore espansione di quei colossi finanziari, anziché eliminare il grave rischio del Too Big To Fail (cioè dei salvataggi necessari per evitare effetti domino sui mercati finanziari) lo ha ulteriormente ampliato. E, se l’America è preoccupata, l’Europa di certo non ride …ma questa è un’altra storia.