La legge elettorale è un tassello fondamentale del più generale riassetto del nostro sistema istituzionale di cui il Paese ha urgente bisogno. Si tratta di norme complesse le cui implicazioni spesso non sono immediatamente percepibili, ed inoltre il dibattito che subito si scatena su una proposta, è quasi sempre viziato da pregiudizi o dagli interessi di bottega di questo o quel gruppo politico, che nulla hanno a che fare con i problemi dell’Italia. Consentite allora ad un “non” esperto di avanzare alcune osservazioni allo scopo di stimolare un dibattito su una puntuale valutazione di quanto è stato proposto,e che magari può essere utile anche ai parlamentari che si apprestano ad esaminare il disegno di legge.
Dico subito che le mie personali valutazioni partono dal presupposto che in questa fase, all’Italia serve un sistema che consenta una stabilità del Governo perché le riforme che si devono fare richiedono una operatività di almeno quattro o cinque anni per poter produrre qualche effetto ed essere quindi valutate. Naturalmente non sono così sprovveduto da pensare che il sistema elettorale, da solo, possa risolvere tutti i problemi della scarsa incisività della nostra politica, ma sicuramente rappresenta un passaggio rilevante del più generale riassetto istituzionale.
Le critiche principali che finora sono state mosse all’Italicum riguardano da un lato la mancata introduzione delle preferenze, e dall’altro il sistema del premio di maggioranza e le varie soglie di sbarramento previste. Anche il funzionamento del doppio turno eventuale sembra suscitare molte critiche tra i costituzionalisti.
Per quanto riguarda le preferenze mi sembra che la loro introduzione, reclamata dalla minoranza del Pd e da Alfano, sia alquanto strumentale. In realtà le preferenze spingono ad aumentare i costi della politica e nel corso della Prima Repubblica hanno dato luogo a gravi distorsioni. Collegi piccoli possono creare ugualmente un più stretto legame tra elettori ed eletti, e dovrebbero spingere i partiti ( con le primarie o senza) a scegliere candidati conosciuti e stimati sul territorio e magari in grado di pescare in un elettorato trasversale. E questo senza cadere nel localismo esasperato che non è certo un bene per chi è chiamato ad occuparsi di problemi nazionali, in più inquadrandoli in un contesto internazionale. Il non aver previsto le preferenze quindi, non sembra un grande vulnus alla democrazia.
Più complesso è il problema delle soglie per ottenere il premio di maggioranza e per l’accesso al Parlamento dei piccoli partiti. Per il premio di maggioranza si prevede una soglia minima di coalizione del 35%. E’ troppo bassa? Inoltre per i partiti minori facenti parte di una coalizione è prevista una soglia del 5% per partecipare alla ripartizione dei seggi. Quindi se ad esempio la coalizione X dovesse ottenere il 35% con il partito principale al 25% e gli altri partiti coalizzati al 10% nessuno dei quali però sopra la soglia del 5%, allora il premio di coalizione del 18% sarebbe assegnato al solo partito principale che in realtà ha avuto solo il 25% dei voti conquistando però il 53% dei seggi. E questo è sicuramente un primo problema. Ed anzi quello che a me sembra fondamentale, non tanto perché ho a cuore la sorte dei piccoli partiti, quanto perché il sistema appare in effetti un po’ squilibrato. Soprattutto nel caso in cui uno o due partiti minori superassero la soglia del 5% (con l’aggravante della clausola di salvaguardia per i partiti territoriali, e cioè la Lega) si riformerebbero maggioranze parlamentari litigiose ed inconcludenti come quelle che hanno caratterizzato il ventennio della Seconda Repubblica.
Del tutto inconsistente invece sembra l’obiezione di coloro che, se si dovesse andare al ballottaggio nel caso nessuna coalizione avesse raggiunto al primo turno il 35%, sono allarmati perchè un partito raggiungerebbe la maggioranza assoluta dei seggi anche partendo da un bassissimo numero di voti al primo turno. Ma questa obiezione non tiene conto che il secondo turno è una elezione democratica quanto quella del primo turno, nella quale gli elettori sarebbero indotti a scegliere il meno peggio, come accaduto il Francia quando andò al ballottaggio Le Pen.
Il cuore del problema sia della governabilità sia della rappresentanza sta quindi nella soglia del 35% e nello sbarramento per i partiti minori. Già si avanzano una serie di proposte che vanno dallo scorporo dalla coalizione dei voti dei partiti che non raggiungono la soglia del 5%, all’ abbassamento di questa soglia fino all’attuale 2%, o ad altri modi per far partecipare anche i piccoli partiti alla spartizione dei seggi del premio di maggioranza. Si tratta di proposte che snaturerebbero tutto l’impianto della proposta rispetto alla necessità di assicurare l’individuazione di un sicuro vincitore delle elezioni.
Forse sarebbe meglio cambiare eliminando le coalizioni dal primo turno, e facendo in modo che ogni partito si presenti con il proprio simbolo, ma mantenendo una soglia minima del 5%, che è alta, ma non diversa da quella esistente in altri paesi europei. Dopo di che se un partito da solo supera la soglia del 35% allora si prende il premio di maggioranza e governa per cinque anni senza subire il ricatto delle formazioni più piccole sempre alla ricerca di visibilità. E già questo costituirebbe un forte incentivo per gli elettori a concentrare i loro voti verso le formazioni maggiori. Nel caso poi nessun partito arrivasse alla soglia del 35%, si dovrebbe andare al secondo turno tra le due formazioni maggiori. Chi vince avrebbe il 53% dei seggi, ma gli altri sarebbero ripatiti proporzionalmente tra tutte le formazioni che al primo turno avranno superato il 5%.
Una soluzione semplice che assicura ai partiti più piccoli il diritto di tribuna, ma punta ad una governabilità migliore di quella che si è ottenuta nel recente passato con le coalizioni che hanno sempre visto il distacco di qualche pezzo più o meno grande.
Sappiamo bene che è il momento di imprimere al nostro sistema politico-istituzionale una svolta “storica”. Quindi apriamo un dibattito invitando esperti e non esperti ad intervenire, evitando però il politichese, ma cercando di stare sulle soluzioni migliori per far uscire l’Italia dal pantano nel quale si trova da almeno tre decenni.