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Legalizzare la cannabis è davvero un’opportunità di sviluppo? L’esperimento (per ora fallito) dell’Uruguay

Pixabay

Ve lo ricordate il modello Uruguay, quello del rivoluzionario presidente Pepe Mujica, oggi 89enne malato di tumore ma che una dozzina di anni fa aveva ispirato le sinistre di tutto il mondo con le sue ricette sociali e, primo Paese al mondo a farlo, con la legalizzazione della cannabis? Ecco, ferma restando la validità sociale e scientifica di quella svolta epocale sulle droghe cosiddette leggere, seguita poi da altri Paesi (in Europa solo Olanda, Germania e Malta a tutti gli effetti), dal punto di vista economico pare che non abbia funzionato così bene.

Nel 2013, nel mezzo della presidenza Mujica, il Paese sudamericano fu infatti pioniere nel legalizzare (e non solo depenalizzare) la cannabis e la sua coltivazione per usi ricreativi, farmaceutici e industriali, con l’idea non solo di sottrarre questo business alla criminalità ma anche di stimolare un export potenzialmente florido.

Cannabis in Uruguay: il consumo decolla, ma non gli affari

Dopo 11 anni, si può affermare che il consumo di cannabis attraverso i canali ufficiali stabiliti dal governo (oltre 400 club e decine di farmacie autorizzate) è sì decollato, ma non altrettanto hanno fatto gli affari. Oggi sono registrati sulle apposite piattaforme istituzionali quasi 100.000 uruguaiani (su una popolazione di 3,4 milioni), ma dal 2018 secondo quanto scrive Bloomberg le vendite all’estero hanno totalizzato meno di 30 milioni di dollari, rispetto alle previsioni dell’epoca che puntavano al miliardo di dollari l’anno, con migliaia di nuovi posti di lavoro creati, mentre gli impieghi ad oggi generati risultano essere appena 750 in tutto il Paese.

Questo, sostiene la testata statunitense, a causa della burocrazia e soprattutto di “un mercato internazionale che ancora non è pronto”, visto che ad esempio il vicino Brasile, che rappresenta potenzialmente i 2/3 del mercato sudamericano, ha depenalizzato solo quest’anno la cannabis per uso personale (fino a 40 grammi per persona) e legalizzato quella per uso terapeutico. Cioè il consumo ricreativo non è più un crimine, entro una certa soglia, ma solo l’utilizzo medico è a tutti gli effetti legale.

Uruguay: un paradiso fiscale che punta al successo nel mercato della cannabis

Eppure l’Uruguay, che oggi ha un governo di centrodestra (si vota di nuovo a fine ottobre) ed è di fatto diventato un paradiso fiscale del Sudamerica, attraendo milionari stranieri e multinazionali come Google che vi ha trasferito un data center investendo 850 milioni di dollari, inizialmente l’interesse di alcune realtà importanti nel campo della cannabis lo aveva anche suscitato. Erano pure nati top player locali come Pharmin, Global Cannabis Holdings e Boreal, che però nel frattempo hanno chiuso i battenti, mentre la farmaceutica MedicPlast è uscita dal segmento. Erano persino arrivati investimenti dal Canada, con Aurora Cannabis che a fine anno lascerà il Paese dopo avervi investito 263 milioni di dollari nel 2018. Le prospettive con l’ingresso (parziale) sul mercato del Brasile e ora dell’Argentina sono più promettenti, ma ad oggi il pionierismo dell’Uruguay non ha pagato.

È semplicemente arrivato troppo presto, in un contesto globale ancora immaturo per motivi spesso ideologici. Basti pensare che in tutto il mondo, i Paesi dove il consumo di cannabis per uso ricreativo e non solo terapeutico è espressamente normato e non solo tollerato, ed escludendo quelli come l’Italia che hanno aperto solo alla “cannabis light”, sono appena dieci: oltre all’Uruguay, Canada, Messico, Giamaica, Malta, Paesi Bassi, Germania, Sudafrica, Georgia e Thailandia. E alcuni Stati degli Usa, ma non a livello nazionale.

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