L’economia italiana non è mai stata così bene da dieci anni a questa parte. La crescita del prodotto e dell’occupazione si è rafforzata nel 2017 più del previsto. Il debito con l’estero si è quasi annullato, da un quarto del Pil nel 2013. Il debito pubblico ha iniziato a flettere, sempre in percentuale del Pil. Gli investimenti, anello finora mancante del recupero in atto da venti trimestri, sono tornati ad aumentare. L’export guadagna quote di mercato, nonostante la rivalutazione dell’euro. Ci sono stati misurabili progressi in molti ambiti strutturali che tradizionalmente imbrigliano il Paese. Anche i bilanci delle banche sono in rapido riequilibrio.
La fotografia a tinte volutamente, ma non forzatamente, positive è contenuta nelle Considerazioni finali della Banca d’Italia. È esatta, analiticamente solida e dettagliata, fondata su studi e ricerche, indagini statistiche proprie. E ha ragione da vendere il Governatore, Ignazio Visco, nello spiegare che occorre proseguire lungo la retta via delle riforme, del risanamento, dell’innovazione, tracciata nell’alveo europeo. “Sta in noi”, esorta infine.
Ma quest’immagine stride con quello che accade da giorni fuori dai saloni di Palazzo Koch, sede della Banca e dell’annuale assemblea, e che molto preoccupa lui stesso e chi lo ascolta con attenzione e approvazione (testimoniata dal lungo e inedito applauso finale). Sui mercati finanziari l’Italia è tornata a essere protagonista in negativo. Tanto da far temere un nuovo 2011. Ora come allora per cause politiche, a ennesima conferma che è la politica che muove i mercati, non viceversa.
Queste stesse cause politiche hanno, oggi, origine in fenomeni che trovano un po’ di posto nell’analisi della Banca d’Italia quando afferma che i danni della doppia recessione sono “paragonabili a quelli di una guerra” (chi scrive lo sottolineò nel giugno del 2012) e quando considera l’accentuarsi del disagio sociale, con il raddoppio della povertà. Ma nel rammentare le misure da poco entrate in vigore per contrastare tale povertà, subito invita a “prestare attenzione alle conseguenze sui conti pubblici” di un loro eventuale rafforzamento.
Qui si capisce che non si è capito, ancora. Non si è capito che l’evidente miglioramento nei flussi (il Pil, la nuova occupazione) è a fronte di uno stock enorme di sofferenza sociale che è diventata rabbia contro l’élite.
Il populismo è l’ultimo stadio della crisi, che era iniziata finanziaria e poi è proseguita economica.
A chi soffre per la povertà, la mancanza di lavoro o il lavoro estremamente precario dei giovani, non importa molto (forse nulla) dello spread che danneggia il risparmio degli italiani, perché di risparmio non ne ha proprio.
Sappiamo bene che il prezzo più grande di una malaugurata uscita dall’euro e dall’Unione europea verrà pagato proprio dalle fasce di popolazione più deboli e dal ceto medio che le ricette populistiche affermano di voler aiutare. E proprio perché lo sappiamo è vitale colmare in fretta il vuoto di comprensione che l’élite ha delle reali condizioni in cui versa gran parte della popolazione, che perciò vota per il cambiamento. Lo stesso Presidente del Consiglio incaricato, Carlo Cottarelli, farebbe bene a dimostrare di esserne pienamente consapevole. Con parole e opere.
Caro Luca, invece di spiegare alle elite che il popolo sta male, sarebbe meglio convincere il popolo a non adagiarsi su quanto gli raccontano i talk show