Fase turbo? Ma non si parlava fino all’altro giorno di stagnazione secolare? La stagnazione secolare è stata dottrina ufficiale del Washington Consensus (Fondo Monetario, Federal Reserve, amministrazione Obama) dal 2013 alla fine del 2016 e tuttora ispira molti oppositori di Trump, in primis Lawrence Summers, che ritengono drogata l’accelerazione della crescita verificatasi a partire dalla primavera scorsa.
La versione europea della teoria della stagnazione secolare è stata l’austerità, nella versione pratica della svalutazione interna, ovvero della deflazione salariale. Tanto in America quanto in Europa ha insomma prevalso a lungo l’idea (che fino ad Abe era stata dominante anche in Giappone) che la crescita sarebbe rimasta bassa per tutto l’orizzonte prevedibile.
L’opinione pubblica ha accettato per qualche anno questa narrazione, ma l’impazienza crescente, a un certo punto, ha portato a una rottura. I deflazionisti sono usciti dalla scena politica e al loro posto sono stati eletti i reflazionisti Abe e Trump, mentre in Europa la leadership tedesca è riuscita a sopravvivere solo con un annacquamento dell’austerità, una forte svalutazione e un via libera al “Qualunque cosa occorra” di Draghi e al Quantitative easing.
I frutti di questo cambiamento di politica sono evidenti nell’accelerazione della crescita globale, che è da quasi un anno perfino superiore a quella dell’età dell’oro dei tre decenni Ottanta, Novanta e Duemila. Sul fuoco di questa accelerazione gli Stati Uniti di Trump gettano ogni giorno nuova benzina sotto forma di deregulation, tagli delle tasse, rimpatrio dei capitali, svalutazione del dollaro, rialzo continuo della borsa e politica monetaria tesa a mantenere i tassi reali a zero.
Siamo quindi entrati nella fase turbo della crescita. Nessuno sa quanto tempo passerà prima che si manifestino seri segni di surriscaldamento. Quello che si può però affermare è che esiste la volontà politica non solo di andare a vedere questi segni, ma di dare loro il benvenuto il giorno in cui si presenteranno tra noi sotto forma di inflazione salariale, inflazione generale e carenza di manodopera. Qualcuno ha detto che si profila il più grande bear market obbligazionario degli ultimi trent’anni.
Può essere, soprattutto se prevarrà, come tutto fa pensare, la volontà politica di allontanare il più possibile nel tempo la prossima recessione e fare risalire inflazione e tassi. Due osservazioni, però. La prima è che negli ultimi trent’anni gli episodi di ribasso obbligazionario sono stati ovviamente sgradevoli, ma nel complesso sopportabili. Il vero grande ribasso risale a quarant’anni fa, durante la stagflazione degli anni Settanta e nessuno oggi, a parte Greenspan, pensa che siamo destinati a rivivere quell’esperienza.
La seconda osservazione è che la normalizzazione della politica monetaria sarà lenta e graduale, quasi inavvertibile nel giorno per giorno. Che cosa deve fare chi ha obbligazioni? Deve smettere di pensare che sulle obbligazioni più sicure, quei dieci trilioni che oggi hanno rendimenti negativi, ci saranno altri capital gain. Deve evitare emissioni con una vita residua superiore ai cinque anni. Deve imparare (o reimparare) a convivere con una certa volatilità. Deve cercare di sfruttare questa volatilità con il trading. Deve dare spazio alle obbligazioni indicizzate all’inflazione.
Deve radicalizzare le sue scelte e concentrarsi sui due poli estremi del cash-equivalent da una parte e dell’ibridazione con l’azionario (come nel caso delle convertibili o dei subordinati bancari) dall’altra, evitando quello che sta in mezzo. Deve sfruttare, finché dura, la fase di dollaro debole per prendere rischi sulle valute locali e sui bond dei paesi emergenti di buona qualità. Il decennale cinese rende il 4 per cento. Si può ricominciare a comprare dollari? Per adesso solo per operazioni di trading.
Per investimento è meglio aspettare 1.30, un livello in cui il dollaro comincerà a essere sottovalutato, soprattutto alla luce della riforma fiscale, che lo rafforza strutturalmente. Il dollaro non è debole per problemi dell’economia americana, ma per la recuperata forza del resto del mondo. A questo si aggiunge la volontà dell’amministrazione Trump, espressa a dire il vero già nel gennaio 2017, di fare uscire il dollaro dalla sua evidente sopravalutazione per dare una spinta ulteriore all’economia americana.
Perché il dollaro scende quando i suoi tassi continuano a salire? Per due ragioni. La prima è che i rialzi americani sono incorporati da tempo nei prezzi. La seconda è che l’America cerca di evitare di subire la salita contemporanea di tassi e dollaro. Per la stessa ragione l’Europa accetta di anticipare il rafforzamento dell’euro intanto che i suoi tassi rimangono sottozero. Quando i tassi europei inizieranno a salire la resistenza a un ulteriore rafforzamento dell’euro si farà più forte, proprio per evitare la doppia frenata su cambio e tassi.
Le borse saliranno per sempre? Solo se l’inflazione e i tassi rimarranno bassi per sempre, ma non è questa l’ipotesi. La stagnazione secolare, con il suo clima intellettuale malinconico, era a suo modo perfetta per giustificare un rigonfiamento continuo e ordinato dei multipli azionari. Ora, nella fase turbo, i multipli non si gonfieranno più (se lo faranno si potrà legittimamente gridare alla bolla) e il peso dei rialzi di borsa ricadrà interamente sugli utili. Per fortuna gli utili, in particolare in America, avranno un 2018 eccellente e un 2019 buono.
Tutti vogliono entrare in borsa, anche chi ne è stato fuori finora. Tutti i bambini americani conoscono la favola di Rip van Winkle, il fedele suddito di Giorgio III che si addormenta su un monte degli Appalachi poco prima della Guerra d’indipendenza e si risveglia vent’anni dopo per scoprire che c’è George Washington alla Casa Bianca. Da un punto di vista gestionale un Rip van Winkle che si fosse addormentato nel 2009 senza azioni con l’SP a 666 e si svegliasse oggi con l’indice a 2840 dovrebbe subito adeguare il suo portafoglio e comprare comunque una buona quota di azioni, visto che le prospettive azionarie sono ancora, in linea di massima, positive.
Dal punto di vista psicologico, tuttavia, chi entra oggi sul mercato si espone comunque alla fase più volatile di un ciclo di rialzo, quella in cui, proprio perché ci si avvicina al surriscaldamento, periodicamente ci si abbandona a spaventi temporanei di vario tipo (sulla crescita, sui tassi, sull’inflazione). E questo quando le valutazioni sono alte. Ora, chi ha prezzi di carico molto più bassi è più attrezzato per sopportare una correzione del 10-15 per cento e attendere il successivo recupero.
Chi entra a mercato già alto e vede una correzione che porta il suo titolo sotto il prezzo di carico, è più incline a
venderlo in perdita. Per questo, ai convertiti dell’ultima ora, raccomandiamo una certa prudenza. Non c’è niente di peggio, gestionalmente, che essere prudentissimi sui minimi e avidi vicino ai massimi.