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L’economia dei servizi è cambiata: non occorre essere grandi ma agili

Pixabay

Saremo serviti. La trasformazione dell’economia in una economia di servizi è sotto gli occhi di tutti. Il protagonista di questa trasformazione è senza dubbio il modo di produzione digitale. Ed è un modo di produzione che è basato sulla servitizzazione, cioè l’erogazione del prodotto in forma di servizio. Si tratta di un cambiamento mica da niente!

Senza dover entrare in altre questioni, si può dire che, oggi, sotto il profilo delle organizzazioni, c’è la consapevolezza diffusa che il digitale tenda a favorire la scala e con la scala un modo in cui tendono a formarsi, quasi spontaneamente, dei monopoli spinti dall’effetto network del modo digitale.

Ma c’è anche che un’altra tendenza, la quale deve ancora manifestarsi in forme più decisive: l’economia dei servizi apri delle possibilità che prima non c’erano per le Pmi, perché più che la dimensione conta l’agilità delle operazioni e delle strutture. E sappiano che una struttura agile funziona meglio di una struttura grande come dimostra senza orma di dubbio la Battaglia di Salamina dove l’agilità ateniese sconfisse la pesantezza persiana.

Perché questo succeda su scala globale occorre che si formi una nuova generazione di persone che sia a proprio agio con l’agilità e la sappia preservare con l’aumento della scala. Ed è proprio qui la sfida centrale. Rimanere agili quando siamo grandi.

IL RAPPORTO SOSTENIBILITA’-CRESCITA

Questo modo di produzione servitizzato, in grande parte dematerializzato nel prodotto e nella logistica, può veramente far entrare in un circolo virtuoso il dilemma sostenibilità-crescita che nel vecchio modo di produzione tendono alla inversa proporzionalità.

Questo tema ed altri sono affrontati in un recente volume di Roberto Siagri dall’emblematico titolo “La servitizzazione. Dal prodotto al servizio. Per un futuro sostenibile senza limiti alla crescita” (Guerini con goWare per l’edizione digitale). L’autore, fisico di formazione, lavora da decenni con le nuove tecnologie e ha attraversato e vissuto le ultime tre grandi rivoluzioni: quella del personal computer, quella di Internet e quella del Cloud, la infrastruttura decisiva per il passaggio al servizio su larga scala.

Il passaggio all’economia dei servizi mediata dal digitale in ogni suo aspetto solleva delle questioni che non solo economiche o legate a un determinato modo di produzione, il quale, come sappiamo e come è sempre avvenuto nella storia, si porta dietro un cambiamento che è anche antropologico e ambientale.

CAMBIA TUTTO

A questo proposito scrive Roberto Masiero nella introduzione al libro: “Se vogliamo ottenere una qualsiasi forma di sostenibilità dobbiamo attuarla con e nel digitale per un motivo chiarissimo: perché il digitale dematerializza, cioè riduce in tutti i momenti/settori dell’intero sistema produttivo la quantità di materia necessaria. La sostenibilità non è sostanzialmente la risposta che dobbiamo dare allo spreco di materia? Inoltre, il digitale demonetizza perché riducendo la materia necessaria si riduce il costo marginale del prodotto, e infine il digitale democratizza in quanto si dà la possibilità a molte più persone di accedere a beni e servizi. Chiarissimo! Cambia tutto”. Vero, cambia tutto ma non in senso del Marchese di Salina. Cambia davvero!

LA PIATTAFORMA

Prendiamo ad esempio la musica. Prima c’era il vinile, poi c’era il DVD. C’era prima il negozio di dischi e ora c’è lo streaming. C’erano i concerti dal vivo e continueranno ad esserci (come c’è il vinile anche oggi) ma si comincia già a vedere una metaversizzazione degli eventi. Tutto questo può avvenire grazie a una straordinaria invenzione: la piattaforma. Senza una piattaforma non si sviluppa alcuna economia del servizio.

La piattaforma è un ecosistema smaterializzato che si comporta come un vero e proprio ecosistema fisico. E forse la società che meglio ha saputo interpretare e realizzare questo principio basilare della nuova economia è proprio Apple, alla quale l’autore dedica pagine molto interessane che vi offriamo qui di seguito come estratto dal volume sopra citato.

ERA IL 2010

Il vero cambio di paradigma, la massima esplicitazione del cambiamento di registro nello sviluppo del codice, si palesò intorno al 2010 con la perdita della leadership di Nokia nei confronti di Apple. Apple aveva capito, già al tempo di iTunes, che il punto di forza non stava solo nell’hardware ma anche nella disponibilità di contenuti digitali. In fondo, rispetto al Walkman digitale della Sony, che cosa aveva in più l’iPod? Nulla dal punto di vista dell’hardware e del suono, però c’era il negozio digitale iTunes dove si poteva comprare la musica, anche solo un brano alla volta e non necessariamente un album intero.

IPHONE: CUORE DELLA PIATTAFORMA

Apple applicò la stessa regola al progetto iPhone. L’iPhone di Apple non era solo un telefono, era un vero e proprio sistema il cui fulcro era una piattaforma che permetteva a un ecosistema di sviluppatori di realizzare rapidamente nuove applicazioni e nuovi contenuti multimediali. Alla piattaforma di sviluppo era associato un servizio che rendeva le app subito commercializzabili: l’App Store. La presenza di questa piattaforma, che garantiva a tutti i partecipanti, sia produttori che consumatori di contenuti, molti vantaggi, sancì la vittoria definitiva di Apple su Nokia.

Nella mia testa però c’era ancora un dubbio: il grande successo di Apple era evidente e comprensibile, ma non mi era ancora chiara l’architettura che si celava, per così dire, dietro le quinte. Di certo bisognava guardare da un’altra parte, sì, ma quale? Apple aveva fatto emergere il concetto di piattaforma intesa come luogo di convergenza tra produttori e consumatori di dati. Mi piaceva l’idea di piattaforma come porto nel quale scambiare questa nuova merce: il dato. Una volta stabilite le regole di base per il funzionamento della piattaforma, non ci sarebbe stato più bisogno di stabilire regole specifiche né per ogni dispositivo né per ogni app. Dispositivi e app avrebbero semplicemente dovuto adeguarsi alle regole della piattaforma. Era dunque questo il bisogno primario: una piattaforma capace di raccogliere una grande quantità di dati.

LA BUSINESS PLATFORM

I due concetti di software platform e di business platform non vanno confusi. Una software platform è un insieme di funzionalità software modulari che accedono alle risorse del sistema e che rendono possibile scrivere agevolmente le applicazioni.

La business platform è invece un’infrastruttura che mette facilmente in relazione domanda e offerta di prodotti. Una piattaforma di questo tipo consente l’attivazione di modelli di business che possono crescere di valore in modo lineare, quadratico o esponenziale secondo le leggi delle reti descritte nel primo capitolo. Va detto che per attivare gli effetti di crescita esponenziale di una business platform servono applicativi software disegnati in modo da consentire la formazione di sottogruppi di utenti, come avviene sui social network e in molti marketplace digitali.

Quello che mi serviva era una piattaforma che avesse sia l’infrastruttura di una business platform, per mettere in relazione i produttori di dati (le cose) con i consumatori di dati (le app), sia le caratteristiche di una software platform, per velocizzare e semplificare lo sviluppo delle app.

LA PIRAMIDE CAPOVOLTA DEL CLOUD

Avrei potuto così realizzare un sistema per collezionare dati in tempo reale con elevata frequenza e da un numero di dispositivi che potesse crescere a dismisura. Al centro di questo sistema immaginavo un contenitore di tutti i dati delle cose connesse, memorizzati sotto forma di dati non strutturati o strutturati come gemelli digitali: un magazzino dei dati per così dire flessibile, quello che poi si sarebbe chiamato data lake.

Per me fu decisivo il momento in cui entrai – una sera che non dimenticherò – nell’ufficio marketing e mi trovai a sfogliare quasi per sbaglio una rivista su cui era riportata un’immagine che attirò la mia attenzione. L’immagine, intitolata «Il Cloud» o qualcosa del genere, mostrava una piramide capovolta suddivisa in tre strati. In quel momento, tutto mi fu chiaro.

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