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Le tasse e gli italiani: siamo un popolo di evasori e di tartassati e l’economia sommersa zavorra il Paese

Per ingannare se stessa e raccontare una storia diversa dalla realtà, ma “politicamente corretta” con l’aria che tira nel convento, l’Italia non ha bisogno di ricorrere a complesse analisi di approfondimento. È sufficiente passare in rassegna i dati e le statistiche ufficiali per rendersi conto della loro insostenibilità rispetto agli stili del vivere civile che chiunque può osservare dalla finestra di casa sua o percepire direttamente girando per le strade della sua città. La prima grande smentita con la quale ci si imbatte si trova nel rapporto tra contribuenti e fisco ovvero su come gli italiani adempiono a quanto stabilito dall’articolo 53 della Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). Ci aiuta in questa dissimulazione l’insistenza con la quale il Centro Studi di Itinerari Previdenziali confuta – dati alla mano – i luoghi comuni delle diseguaglianze e delle condizioni economiche degli individui e delle famiglie. Nella rassegna più recente viene preso di mira come si è redistribuito il carico fiscale Irpef fra le varie fasce di reddito negli ultimi 15 anni. Resta sostanzialmente invariata la quota di contribuenti che effettivamente sostiene il Paese con tasse e contributi, e di contro troppo alta quella di cittadini totalmente o parzialmente a carico della collettività: infatti, malgrado il miglioramento Pil e occupazione, il 45,16% degli italiani non ha redditi e di conseguenza vive a carico di qualcuno. Su 42 milioni di dichiaranti, poi, il 75,57% dell’intera Irpef è pagato da circa 10 milioni di contribuenti, mentre i restanti 32 ne pagano solo il 24,43%. 

L’analisi delle fasce di reddito: chi sostiene l’Irpef

Su una popolazione di 59.030.133 cittadini residenti (si prenda nota del concetto di residenza che è diverso da quello di cittadinanza) sono 42.026.960 quanti hanno presentato una dichiarazione dei redditi nel 2023 (con riferimento all’anno di imposta precedente). A versare almeno 1 euro di Irpef solo 32.373.363 residenti, vale a dire poco più della metà degli italiani: a ogni contribuente corrispondono quindi 1,405 abitanti. Ma è nei dettagli che si nasconde il diavolo. Fino a 7.500 euro lordi si collocano 9.330.900 soggetti, il 22,20% del totale, che pagano in media 20 euro di Irpef l’anno (14 se rapportati ai cittadini). I contribuenti che dichiarano redditi tra i 7.500 e i 15.000 euro lordi l’anno sono 7.626.579: in questo caso, al netto del Tir, l’Irpef media annua pagata per contribuente è di 294 euro (209 euro per abitante), a fronte – a titolo esemplificativo – di una spesa sanitaria pro capite pari di circa 2.221 euro. Tra 15.000 e 20.000 euro di reddito lordo dichiarato si trovano 5,4 milioni di contribuenti, che pagano un’imposta media annua di 1.761 euro, che si riduce a 1.254 euro per singolo abitante; seguono da 20.001 a 29.000 euro 9,5 milioni di contribuenti, con un’imposta media di 3.612 euro che si scende a 2.571 se rapportata al totale degli abitanti: un importo che, come per la fascia successiva, basterebbe di per sé a coprire i costi della sanità, ma che resterebbe comunque insufficiente guardando alle altre principali funzioni di welfare non coperte da contributi di scopo, tra cui appunto l’assistenza. Seguono quindi i redditi tra 29.001 e 35mila euro, fascia in cui si collocano 3.754.371 contribuenti pari a 5.273.306 abitanti: questi contribuenti, l’8,93%, pagano un’imposta media di 6.138 euro l’anno, 4.370 euro per abitante, e versano complessivamente il 12,17% delle imposte. Sommando tutte le fasce di reddito fino a 29mila euro, emerge che il 75,80% dei contribuenti italiani versa soltanto il 24,43% di tutta l’Irpef: una fotografia più vicina a quella di un Paese povero che di uno Stato membro del G7 e che parrebbe oltretutto poco veritiera – secondo Itinerari previdenziali – guardando a consumi e abitudini di spesa degli italiani. E’ agevole rendersi conto che sono pochi i contribuenti che pagano imposte adeguate ai loro stili di vita e troppi quelli che denunciano redditi troppo bassi. Per la legge dei grandi numeri, tuttavia, l’evasione è prevalente in questo secondo insieme.

Un welfare sulle spalle di pochi: i redditi alti

A salire, la scomposizione mostra invece che poco più di 6 milioni di versanti con redditi superiori ai 35mila euro che, nella sostanza, si fanno carico del finanziamento del nostro welfare state.  Si tratta di una platea di percettori di redditi che sono stati esclusi puntualmente da tutte le erogazioni intervenute a sostegno delle famiglie durante le crisi degli ultimi anni come se il limite dei 35mila euro costituisse per legge il Rubicone che separare il benessere dalla povertà.

Più precisamente, esaminando le dichiarazioni relative agli scaglioni di reddito più elevato, sopra i 100mila euro, solo l’1,56% dei contribuenti (poco più di 650mila persone) versa il 23,59% del totale Irpef. Sommando loro anche i titolari di redditi lordi da 55.000 a 100mila euro (che sono 1.635.728), il 3,89% del totale, e pagano il 18,11% del totale delle imposte), si ottiene che il 5,45% paga il 41,69% dell’Irpef. Includendo dunque anche i redditi dai 35.000 ai 55mila euro lordi, risulta pertanto che il 15,26% paga il 63,39% dell’imposta sui redditi delle persone fisiche. Ricomprendendo infine anche lo scaglione 29mila-35mila euro, “autosufficiente” su quasi tutte le funzioni di welfare salvo una quota di assistenza, si ottiene che il 24,20% dei contribuenti corrisponde il 75,57% dell’Irpef complessiva e, si suppone, una quota altrettanto rilevante delle altre imposte. 

L’istantanea dei rapporti tra i contribuenti e il fisco dovrebbe essere la cartina di tornasole della condizione reddituale, economico e sociale di un Paese. Sappiamo però che non è così, che esiste un’economia “non osservata” da cui deriva un reddito – sottratto al prelievo fiscale e parafiscale – ma destinato ai consumi. Nelle tabelle che seguono vengono indicate le grandi categorie dell’economia sommersa con le risorse che sono messe in circolazione. Le principali componenti della Economia non osservata sono rappresentate dal sommerso economico e dall’economia illegale; il sommerso statistico e l’economia informale ne completano lo spettro. Il sommerso economico include tutte quelle attività che sono volontariamente celate alle autorità fiscali, previdenziali e statistiche. Esso è generato da dichiarazioni non corrette del fatturato o dei costi delle unità produttive (in modo da generare una sotto-dichiarazione del valore aggiunto) e dell’input di lavoro impiegato nei processi produttivi (ovvero l’utilizzo di lavoro irregolare). L’economia illegale è definita dall’insieme delle attività produttive aventi per oggetto beni e servizi illegali, o che, pur riguardando beni e servizi legali, sono svolte senza adeguata autorizzazione o titolo. Il sommerso statistico include tutte quelle attività che sfuggono all’osservazione diretta per inefficienze informative (errori campionari e non campionari, errori di copertura negli archivi, ecc.). Infine, l’economia informale include le attività produttive svolte in contesti poco o per nulla organizzati, basati su rapporti di lavoro definiti nell’ambito di relazioni personali o familiari e non regolati da contratti formali.

L’economia sommersa: il grande assente dalle statistiche

La stima del sommerso economico nei Conti nazionali comprende le componenti relative a:

  1. sotto-dichiarazione del valore aggiunto;
  2. componente del valore aggiunto riconducibile all’impiego di lavoro irregolare;
  3. altre componenti del sommerso economico.

La sotto-dichiarazione del valore aggiunto è connessa all’intenzionale occultamento da parte delle imprese di una parte del reddito attraverso dichiarazioni volutamente errate del fatturato e/o dei costi alle autorità fiscali (con un analogo comportamento riscontrato nelle rilevazioni statistiche ufficiali).

Il ricorso al lavoro non regolare da parte di imprese e famiglie è e resta una caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano. Nel 2021 le unità di lavoro a tempo pieno in condizione di non regolarità si attestavano a 2 milioni 990 mila e mostravano un modesto recupero rispetto al 2020, quando avevano registrato una flessione del 18,6%. L’aumento delle unità di lavoro irregolari (+2,5%, nel complesso), è stata trainata dall’andamento delle unità indipendenti che nel 2021 hanno sperimentato un tasso di crescita del5,1%, a fronte di un modesto aumento dell’1,5% di quelle dipendenti. La dinamica delle unità di lavoro irregolari è stata, comunque, decisamente più contenuta di quelle regolari, aumentate nel complesso del 10,7%, determinando una ulteriore significativa diminuzione del tasso di irregolarità e rafforzando il trend decrescente in atto dal 2015. Se si analizza il medio periodo, si osserva che rispetto al 2018, le unità di lavoro irregolari nel 2020 sono circa 654 mila in meno, come sintesi di una diminuzione di 470 mila unità dipendenti e 183 mila unità indipendenti. Il tasso di irregolarità perde nei quattro anni 2,4 punti percentuali, passando dal 15,1% del 2018 al 12,7% del 2021.

Disuguaglianze e resilienza sociale

Analisi più recenti si sono proposte di mettere un po’ di ordine nel mercato del lavoro, dove, seguendo la mistica dell’impoverimento e delle diseguaglianze, si finiva per contare più volte le stesse platee in insiemi differenti, senza rendersi conto che – direbbe il grande Totò – è la somma che fa il totale. È il caso dei Neet che a lungo è stato ritenuto un fenomeno a sé e che nuove indagini, invece, tendono a riportare nell’ambito del lavoro irregolare e quindi ad un’area di parziale autonomia economica. In questa prospettiva anche il dato della povertà deve essere riconsiderato. Non è certo un processo di transizione in grado di fornire sicurezze per un futuro adeguato alle trasformazioni attese quello che viene presentato in tutte le sue fragilità del mercato del lavoro, dei grandi sistemi fiscali e di sicurezza sociale.

Siamo in grado, però, di capire perché un Paese come l’Italia affronta senza particolari conflitti sociali situazioni che vengono descritte di grande disagio. Basti pensare a ciò che avvenuto per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, la cui revisione è passata praticamente inosservata in contesti socio-economici che ne erano dipendenti. Itinerari previdenziali ha pubblicato dei dati relativi alla Campania ripresi dal Corriere del Mezzogiorno. Nella regione risiede il 9,5% della popolazione, ma i contribuenti sono il 7,7% del totale con appena 1,2 miliardi di entrate. Non solo i servizi pubblici ma anche i consumi reali privati – scrive il giornale – non possono essere giustificati dal livello di redditi dichiarati; una incongruenza che mette in evidenza le aree di grigio, di sommerso, di lavoro irregolare, di economia informale. Aree di illegalità vaste che pur non apparendo nelle statistiche e nei rapporti, rappresentano il vero tessuto economico campano.

Insomma, siamo un popolo di poveri benestanti.

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