Condividi

“Le Serenissime. Storia e futuro delle imprese del Nordest”: il nuovo libro di Paola Pilati

Come cambia il Nordest? Lo racconta Paola Pilati nel suo nuovo libro. Centrale il passaggio generazionale delle imprese che sono parte del miracolo italiano

“Le Serenissime. Storia e futuro delle imprese del Nordest”: il nuovo libro di Paola Pilati

“Raccontare il Nordest che cambia. Togliere la polvere dall’immagine del territorio rimasta cristallizzata dagli anni del boom, verificare che cosa è rimasto vivo del modello di impresa che germogliò spontaneamente, tra gli anni Settanta e Ottanta, da una cultura contadina e che si moltiplicò in uno straordinario effetto imitativo, dando vita a un tessuto produttivo di successo globale, radicato e organizzato nei distretti. Raccontare il nuovo Nordest, a volte colto in piena transizione, a volte plasmato decisamente da nuovi connotati. Questa la missione con cui è nato questo libro” di Paola Pilati “Le Serenissime. Storia e futuro delle imprese del Nordest”, edito da Luiss University Press.

Storia e futuro delle imprese del Nordest: il passaggio generazionale

“Il passaggio generazionale – scrive la Pilati in uno dei capitoli centrali del suo nuovo libro – coincide con una nuova cultura del fare impresa. Ci farà evolvere”. Antonella Candiotto, amministratore delegato della Galdi, seconda generazione si mostra ottimista su una delle transizioni più complesse del Nordest, per il suo tessuto socio-economico molto più dilaniante e pervasiva di qualsiasi altra transizione, vuoi energetica vuoi ambientale. Il passaggio del testimone dal fondatore agli eredi è sempre delicato, in questo territorio, dove la generazione dei padri aveva spesso molto talento nelle mani ma poca scuola, quella dei figli si muove tra master, milieu internazionale, consulenti. Vuol dire un cambio di valori, di visione, anche di rapporti con i dipendenti, molto radicale. Due mondi diversi. Ma di quella transizione spesso rimangono i segni, l’idea di un bivio tra libertà e destino, il senso di una responsabilità che non si può tradire.

“Sono cresciuto con il nome dell’azienda tatuata sul cuore”, ammette Mario Roberto Carraro, l’amministratore delegato di Mecc Alte, che per quel richiamo familiare ha lasciato la sua carriera universitaria, e si indovina una vena di rimpianto. Tatuaggi che risalgono all’infanzia, storie di figli portati a bottega con un imprinting indelebile: “L’azienda ha fatto parte della nostra vita sin da piccoli”, racconta Mirco Maschio, erede con il fratello Andrea dell’azienda di macchine agricole fondata dal padre Egidio: “Quando finiva la scuola mio padre mi portava con sé: avevo la mia tuta, timbravo il cartellino e avvitavo bulloni. Per me era un gioco, ma serviva a trasmettermi il valore del lavoro e l’amore per quel luogo”.

ll magnetismo del family business

Non tutte le storie partono allo stesso modo visto che, quando vengono interrogati da studenti, sono pochi i figli degli imprenditori che vedono il loro destino già segnato. Eppure il magnetismo del family business alla fine vince, permeato com’è non solo di decisioni di testa, ma soprattutto di pancia.

L’arrivo delle nuove generazioni nelle stanze del comando ha portato certamente una visione più ampia e sofisticata del mondo degli affari, ha aperto la porta a consulenti esterni, visti una volta come intrusi dal mondo dei padri, ha saputo elaborare governance plurali e non più incentrate su un uomo solo alla guida.

I confini

Il passaggio di testimone è anche occasione per rendere più chiari i confini tra azienda e famiglia. L’allargamento dei clan e la gestione dei relativi possibili conflitti interni hanno portato a definire patti familiari per l’ingresso delle nuove generazioni, perché non tutti i figli devono per forza ereditare la cloche, ma se la vogliono devono sicuramente dimostrare che sanno creare valore. Patti quindi che prevedono blocchi drastici per le nidiate di casa: la laurea è indispensabile, come pure un periodo di esperienza fuori, possibilmente all’estero, e persino la dimostrazione di saper fondare un proprio business diventa la prova per l’ammissione ai piani alti dell’azienda.

L’età adulta del capitalismo nordestino

L’assunzione di responsabilità da parte dei quaranta/cinquantenni ha già iniziato a cambiare il volto del Nordest. Gli ha dato una classe dirigente che esce dalla provincia, che si sente alla pari con le imprese che hanno già cinque generazioni alle spalle, quelle lombarde o piemontesi, dalle quali qui nel Nordest si sentivano guardati con una certa superiorità. Soprattutto, questa nuova generazione sta dando ottima prova. E stimola l’emulazione: “In Confindustria, tra i giovani imprenditori il 60% è di prima generazione”, segnala Giordano Riello, nipote dell’omonimo fondatore della Aermec. Per dire che la voglia di fare impresa non si è fermata, che il genius loci del Nordest nel dare spazio all’iniziativa individuale resta sempre vivo.Il fatto che le aziende restino familiari quanto a controllo, ma sono sempre meno “della famiglia” come stile di comando, dove la cassa non la tiene più l’ex bancario andato in pensione, il bilancio non lo scrive più il commercialista di casa, apre la strada all’età adulta del capitalismo nordestino. Quello che può assicurare davvero la vita dell’impresa nel tempo, la sua durata tra le insidie del futuro.

Paola Pilati

Paola Pilati, giornalista, ha lavorato per il settimanale L’Espresso, dove è stata responsabile delle pagine dell’Economia per oltre 15 anni. Si è occupata dei diversi aspetti del settore, dalle costruzioni ai trasporti, dall’energia alla finanza, dal sindacato alla previdenza e alla macroeconomia.

Commenta