Molte affermazioni si chiarirebbero negli enunciati delle ultime “manovre” di bilancio e nella opinione dei cittadini italiani se invece di ragionare sull’arco di qualche semestre si guardasse verso i prossimi anni. Si darebbe così compiuta risposta all’interrogativo (vero e proprio tormentone): se non ora quando ? ;e si eviterebbe anche di cadere nel vizio della “illusione finanziaria” denunciato da Amilcare Puviani (grande maestro di Scienza delle finanze) all’inizio del 1900. Invece, le forze politiche di maggioranza e di opposizione, cullate dal sogno degli eurobond e dagli effetti salvifici del pareggio di bilancio, hanno accantonato il problema del debito pubblico inchiodato al 120 % del Pil.
Si dimentica che l’Italia è il più importante esportatore europeo di debito pubblico: circa il 50 % sta nei portafogli esteri. Pertanto il successo della politica economica che eviti la parziale monetizzazione del nostro debito sovrano dipende crucialmente dalla fiducia che gli investitori esteri mantengono nella nostra capacità di pagare gli interessi e di rimborsare il debito alla scadenza. E’ bensì vero che il rapporto debito pubblico-Pil è un indicatore “bastardo” in quanto confronta uno stock accumulato negli anni (il debito) con un flusso annuo di ricchezza prodotta (il pil).
Ma certo è che uno stock di debito pubblico nell’ordine del 120 per cento del pil non induce gli investitori esteri a cullarsi in sonni tranquilli poiché (anche se in via astratta) tutta la ricchezza prodotta in un anno non sarebbe comunque sufficiente a rimborsare il debito. Tuttavia, segnali recenti di riduzione dei titoli del debito pubblico italiano nei portafogli di istituti finanziari europei costituiscono un segnale di allarme che non va trascurato.
Ovviamente nessuno crede che l’Italia possa scendere a un rapporto debito pil pari al 60 %, così come fu imposto ai tempi del trattato di Maastricht per tentare di escludere il nostro paese dall’ingresso nella moneta unica: lo volevano gli olandesi ed i tedeschi, ma non la Francia che fu determinante per il nostro ingresso.
Si aggiunga che, purtroppo, la teoria non aiuta nel definire il rapporto ottimale tra debito pubblico e pil. Analisi empiriche (Rogoff e Reinhart) – da considerare tuttavia con estrema cautela- indicano che le soglie comprese tra il 70 ed il 90 per cento metterebbero il paese in zona di sicurezza nel giudizio dei mercati finanziari internazionali.
Si dice, e si illude in casa nostra, che una accorta politica di “tagli” insieme a provvedimenti di rilancio dell’economia reale possono innescare nell’arco di qualche anno (quanti ? si tace) un circolo virtuoso che non disturberebbe il sonno degli investitori esteri. Pare a me che si tratti nulla di più che di un genere letterario che, come detto, Amilcare Puviani considererebbe al pari di pura “illusione finanziaria”.
Più comprensibile e meno illusorio sarebbe l’annuncio del governo se l’obiettivo dichiarato fosse quello di riportare nell’arco di alcuni anni (quanti ?) alla soglia psicologica del 99,9 per cento del pil lo stock del debito, senza immaginare circoli virtuosi che rendano politicamente meno dolorose le politiche di rientro dal debito sovrano. Così facendo, si rientrerebbe in quella zona di fiducia dovuta alla considerazione (seppure astratta) che la ricchezza prodotta in un anno sarebbe in grado di rimborsare l’intero debito pubblico. Si può fare?
Quattro numeri per non cadere nel vizio della illusione finanziaria di Puviani trascurando pertanto anche gli effetti retroattivi del bilancio sull’economia.
Se ipotizziamo un tasso di crescita nominale del pil ragionevolmente pari al 3% annuo e manteniamo costante l’ammontare in valore assoluto dello stock del debito pubblico occorrono non meno di sei anni affinché il debito scenda nell’intorno del 99,9 % del Pil. E’ ovvio che per mantenere costante lo stock del debito pubblico nel corso dei sei anni neppure un euro di nuovo disavanzo deve essere generato. Le ricette non mancano tranne quelle orientate ad una ferrea lotta all’evasione che dovrebbe seguire l’insegnamento dei giudici Falcone e Borsellino che operavano nella certezza che i soldi da qualche parte finiscono e li vanno cercati.
Nel nostro caso si tratta di inseguire i soldi per raccordare la ricchezza finanziaria ai redditi dichiarati. In ogni caso si tratta di scegliere quelle ricette idonee a fare si che l’indebitamento delle amministrazione pubbliche (che comprende sia le spesa corrente che quella in conto capitale, oggi circa il 4% del Pil) venga subito azzerato e mantenuto a zero nel futuro: così come chiedono coloro che (senza sporcarsi le mani con i numeri) ritengono di porre in costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio.
In questo contesto spetterebbe invece alle cd. “riforme a costo zero” il compito di rilanciare lo sviluppo dell’economia reale. Come si diceva una volta occorrono due strumenti per soddisfare due obiettivi: la politica di bilancio per il controllo del debito sovrano, la politica delle “riforme a costo zero” per il rilancio dell’economia reale.
Lungo è l’elenco di queste e non vi è che l’imbarazzo (politico) della scelta. Ad esempio: privatizzazioni (compresa la Rai che da tempo non svolge più il servizio pubblico essendosi posta al servizio di Mediaset per il mantenimento del duopolio) e (come negli USA) vendita all’asta di tutte le frequenze televisive e radiofoniche i cui incassi dovrebbero andare ridurre lo stock del debito, e non a finanziare nuove spese, così come si faceva negli anni novanta dell’altro secolo; liberalizzazioni nei settori delle farmacie, delle tabaccherie, delle rivendite dei giornali, delle licenze per i taxi, nessun limite agli orari dei apertura dei negozi, liberalizzazioni delle professioni e dei punti di vendita di benzine e gasolio e così via. Sono settori ove l’occupazione giovanile può trovare spazi consistenti.
Ma è certo che gli incumbent non gradiscono le new entry. L’istituzione della Autorità dei trasporti (sempre avversata) vigilerebbe sulla congruità delle tariffe in rapporto agli investimenti dei gestori. E poi, perché non fare come nei paesi più civili adottando misure che riservino al pubblico (oltre agli oneri di urbanizzazione) la rendita fondiaria connessa alla espansione delle città e dei villaggi ? Darebbe sollievo ai bilanci degli enti locali e una più efficace tutela del territorio.
Il passato ci insegna che le “riforme a costo zero” hanno costi politici che nessuno ha voluto ancora affrontare. Caduto l’ottimismo di facciata e preso atto che la crisi di oggi non ha eguali nel passato, perché non adottare politiche che anch’esse non hanno eguali nel passato ?. Come si dice per altri ambiti: se non ora quando affronteremo il nostro problema del debito pubblico?