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Le manette all’evasore non sono la via giusta per rafforzare il fisco

Imagoeconomica Alessandro Paris

Nella recente intervista su FIRSTonline (Fisco, per battere l’evasione la priorità è ridurre l’erosione) il pensiero di Vieri Ceriani, razionale, contrasta con l’irrazionalità dell’esperienza, la quale fa del contenimento dell’evasione, mediante il puntuale accertamento del debito tributario, una non secondaria questione di scelta politica.  

Non soltanto i parlamentari si dividono quando si tratta d’impiego di tecniche per contrastate l’evasione, ad es. sui limiti del contante nei pagamenti. Vediamo le stesse forze politiche orientarsi diversamente sull’impiego degli strumenti già esistenti per l’accertamento dell’obbligo tributario: la sinistra la si configura come fanatica dell’accertamento; mentre da destra si sarebbe disposti a sopportare un certo margine di evasione. Anni fa un autorevole personaggio mi sottolineava il serio rischio di eversione popolare se si fosse esagerato nel contenere la diffusa evasione nell’area del minore commercio, del lavoro autonomo, delle professioni. Strano! La severità nell’accertamento del debito d’imposta non è né di destra né di sinistra; le differenze, le distinzioni di politica, dovrebbero stare, ed esaurirsi, nelle scelte della legislazione che conforma il sistema tributario. 

In effetti, se approfondiamo il fenomeno, le forze politiche riflettono sentimenti dell’elettorato. Il cittadino è meno portato a discutere della conformazione legale del sistema tributario, inutilmente complicato per il suo sviluppo disordinato, contingente, ingiusto, come spiegato nell’intervista dalla quale ho preso spunto: “una specie di vestito di Arlecchino”. Invece l’elettore si sente coinvolto quando si parla del contenimento dell’evasione. Si può perdere, ma anche guadagnare l’elezione mostrando una certa tolleranza all’evasore. 

Questo sentire è irrazionale se non lo accompagniamo al congiunto, sottinteso, sentire che lo Stato percettore delle entrate tributarie è incontinente nello spendere.  

Il contribuente non coglie la correlazione delle entrate con le spese. Da un lato soffre del peso del tributo; dall’altro lamenta insufficienze nell’erogazione dei servizi: i buchi nelle strade non soltanto di Roma; insopportabili attese nella sanità, che lo costringono, anche impropriamente, al privato; difficile avviamento dell’anno scolastico; affossamento della giustizia civile; apparato amministrativo e para-amministrativo esuberante; posizioni e compensi riconosciuti a personale selezionato non sempre per competenza; proliferare di centri di spesa nelle società pubbliche; incomprensibili salvataggi di aziende private. 

L’elettore di tutta l’erba ne fa un fascio. Non è messo nella condizione di decidere nella correlazione dell’entrata con la spesa: se vuoi la sanità pubblica devi affrontare un tributo, sostitutivo del prezzo privato per la prestazione sanitaria o del premio di assicurazione. L’elettore per decidere deve trovare correlato il tributo al servizio, valutarne l’efficienza, probabilmente diversa secondo le regioni di appartenenza, il che giustificherebbe anche soluzioni differenti, fatta salva l’uniformità per le prestazioni fondamentali. Nell’intervista di Ceriani è richiamata la genesi dell’Irap, che rispondeva a questa logica. Va sottolineato che l’estensione della sfera pubblica allo Stato sociale giustifica i tributi con destinazione specifica.  

Prima ancora, nella prospettiva nazionale, si giustificherebbe il trasferimento dei compiti sociali agli enti territoriali, dislocando le spese per i servizi e le corrispondenti entrate. La concentrazione nello Stato delle funzioni sovrane (giustizia, militare ecc.) ne renderebbe più immediata la valutazione di efficienza. L’autorità indipendente cui fosse affidata la revisione dell’efficienza delle spese sarebbe l’occhio dell’elettore sull’impiego delle risorse fornite dal sistema tributario, nelle diverse articolazioni. Così possiamo chiedere “una maggiore collaborazione tra amministrazione e cittadini”. 

A quest’ultimo riguardo aggiungo una ragione non indifferente di crisi nei rapporti del contribuente con il Fisco. Il procedimento di accertamento è così incerto nella fase delle rilevazioni e nella prosecuzione del contraddittorio, da essere percepito come vessatorio, per la presenza di sanzioni pecuniarie che potrebbero elevarsi ad ammontare spropositato, anche per la minaccia del penale. Ancora questi profili stimolano la sfiducia del cittadino verso le istituzioni tributarie. È materia che il legislatore sensibile dovrebbe riaffrontare alle radici. 

La politica, invece di ripensare all’adeguamento del nostro Stato alle realtà dell’Europa e del Mondo, ci costringe a discutere delle manette agli evasori.

Concordo con Ceriani. Le sanzioni penali già esistono con effetti deterrenti. Non soltanto nuova repressione penale non vale a rafforzare, o peggio a sostituire, le operazioni dell’accertamento; ma finirebbe con l’accrescere il contenzioso penale, che, già soffocato, rischia di essere vanificato dalla prescrizione, con inutili costi per la collettività; forse fonte di rendita per le professioni legali.  

Ma prima ancora della politica, nella trappola del contingente cade la pubblicistica, la quale sfugge dal pensiero sistematico come fossero astrazioni teoriche: la discussione pubblica, sguarnita dal supporto di studi teorici, necessariamente rimane costretta al giorno per giorno; alle manette agli evasori. 

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