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Le Borse hanno corso molto, forse troppo. Le economie tengono il passo. L’inflazione cala e i tassi scenderanno

L’abbaglio della recessione prossima ventura

L’economia USA è in fase di rallentamento, auspicabile e auspicato. Finirà in recessione? Essendo la prima economia del mondo e inserendosi in un contesto globale non brillantissimo (industria europea in caduta, Cina in fragile ripresa…), la domanda interessa tutti noi, anche per le eventuali ricadute sui mercati finanziari (tassi, cambi, Borse…). La risposta al quesito si articola in una considerazione generale e in uno sguardo mirato.

La considerazione. Come per le automobili la retro non è la direzione di marcia più frequente, così la recessione non è la condizione usuale di movimento dell’economia. I meccanismi che la governano ormai da più di due secoli (concorrenza, profitto, progresso tecnico, emulazione, voglia di crescere, adattamento, finanza, intervento pubblico…) la spingono inesorabilmente in avanti. La recessione, dunque, è un’eccezione, una postura contro natura. Perciò è così difficile prevederla. Infatti, la maggior parte degli analisti evitano di farlo e non è mai accaduto che i grandi centri studi internazionali (FMI, OCSE etc) la vedessero arrivare. Tanto che la stessa Regina Elisabetta II nel 2008, appena deflagrata la Grande crisi finanziaria, chiese agli economisti: «It’s awful – why did nobody see it coming?». Parafrasando una frase di un altro regno, potremmo concludere che c’è del marcio nei modelli econometrici. Ma sarebbe pura ingratitudine condita con perfidia.

E non è che gli uomini pratici dei mercati finanziari se la cavino meglio nel predire la riduzione di attività economiche e occupazione. Come sentenziò Paul Samuelson nel 1982, la Borsa ha previsto nove delle ultime cinque recessioni. Cioè, la caduta dei corsi non prelude necessariamente a una discesa negli inferi recessivi, e nemmeno l’inversione della curva dei rendimenti.

Lo sguardo mirato. Gli indicatori congiunturali continuano a segnare bel tempo nell’economia USA. Il PMI composito di giugno dice che la ripresa si sta addirittura rafforzando al di là dell’Atlantico, mentre perde bruscamente colpi nell’Eurozona e in Giappone (ma per ragioni diverse: crisi dell’auto qua, mancanza di domanda terziaria là). Produzione e ordini aumentano.

 E l’occupazione continua a salire a ritmi invidiabili, seppure più gradualmente di prima, come si voleva facesse per raffreddare le pressioni inflazionistiche. Che si sono in effetti raffreddate. Cosicché il monte salari reale avanza più o meno alla stessa velocità dei passati due anni. E ciò alimenta la spesa in consumi e la voglia di shopping dei consumatori.

Inoltre, l’eccesso di risparmio, accumulato nei mesi duri dei lockdown grazie ai generosi sussidi federali, consente di non dover iniziare subito e improvvisamente a mettere in cascina soldi per i tempi magri (secondo i calcoli delle Lancette ai ritmi attuali di aumento di reddito e spesa quell’eccesso non si esaurirà prima della fine del 2026, al più presto). Né ci sono segnali di troppo indebitamento del settore privato, che anzi è oggi inferiore a quello che era nel 2019 (immagine speculare dell’aumentato debito pubblico).

Interessante, infine, che BCA, un centro di ricerca economica specializzato in consigli nella gestione degli investimenti finanziari, pur essendo da tempo convinto che ci sarà recessione in USA entro il 2025, ha recentemente compilato una check-list di dieci segnalatori di imminente inciampo economico e ha dovuto constatare che solo due lampeggiano oggi, entrambi di dubbio significato (disoccupazione del 3,83% o sopra e poche posizioni ribassiste in Borsa).

Se la nave USA va bene, altrettanto non si può dire dell’Eurozona. Dove il manifatturiero continua a contrarsi. Il modello tedesco incentrato sull’automotive e sulla bazar economy (importo semilavorati e riesporto prodotti finiti in tutto il mondo) è in grave difficoltà, causa passaggio alla mobilità elettrica e deglobalizzazione per tensioni geopolitiche. La Francia pure patisce i due cambiamenti strutturali. Ne soffrono meno Spagna e Italia, dove però la fine del superbonus sta iniziando a lasciare il segno anche sui manufatti, mentre si fanno sentire i forti legami industriali con la Germania. Consolazione per nulla magra è che l’occupazione sale, e ciò crea una rete di sicurezza che attutisce la caduta congiunturale, oltre a ridurre esclusione sociale e disuguaglianza.

E che dire dell’ASIA, il terzo grande polo mondiale, orami il più grande? L’India continua a galoppare e inizia a essere fabbrichetta globale, la Cina fatica nei servizi ed è dinamica nella manifattura, e lo stesso vale per il Giappone.

L’inflazione scende e scenderà

Il raffreddamento dei prezzi al consumo negli Stati Uniti è una buona notizia, anche se talvolta viene presa come una cattiva. È una buona notizia per svariate ragioni: conferma quanto pronosticato dalle Lancette, e cioè che l’interruzione del cammino verso il traguardo del 2% nei primi quattro mesi del 2024 non era da prendere come oro colato, perché era influenzata dal cambiamento dei comportamenti che hanno modificato la stagionalità; conferma anche che l’ultimo miglio della discesa sarebbe stato più graduale; dissipa i dubbi residui della Fed, che ora può iniziare a tagliare i tassi già a settembre; rimpingua il potere d’acquisto delle famiglie e dà nuovo slancio dei consumi, che sono la gran parte della domanda; rassicura i mercati finanziari, che a furia di aspettare il realizzarsi delle aspettative di riduzione dei tassi avrebbero potuto mettere in aspettativa le voglie rialziste; aiuta le altre Banche centrali a credere anche loro che l’inflazione vissuta nel 2021-22 è un episodio minore che non comparirà mai nei libri di storia economica, e quindi anche loro prenderanno coraggio nel tagliare.

È una cattiva notizia quando il bicchiere della domanda che si è un po’ svuotato viene letto come, appunto, mezzo vuoto. La disinflazione non è forse segnale di indebolimento della crescita? E tale indebolimento è l’anticamera della recessione? Su questo punto abbiamo già risposto sopra.

D’altra parte, e a rafforzamento della tesi contraria che non sia l’anticamera della recessione, c’è un’altra conferma: le pressioni inflazionistiche globali non sono tornate dove erano prima della pandemia, ma restano un gradino sopra, come fa vedere le componente prezzi del PMI globale. In altre parole, non stiamo rischiando di ricadere dalla padella inflazionistica alle braci della deflazione. Un punto più volte ribadito dalle Lancette in questi ultimi mesi.

Casomai si nota quel che alcuni hanno cominciato a sottolineare con più forza: con i salari che aumentano ancora discretamente, a farsi carico di questo maggior costo e di quello delle materie prime (pure piuttosto calme) sono i margini di profitto delle imprese.

Le stesse materie prime non sono in particolare tensione, semmai segnano il passo a causa del minor vigore rispetto alle attese della ripresa asiatica e nell’Eurozona.

La maggiore lentezza e la più bizzosa discontinuità nella frenata dei prezzi al consumo nell’Eurozona si legge soprattutto bene nelle componenti core (cioè, senza energia e beni alimentari). D’altra parte, i prezzi di tali componenti sono più intensamente influenzati dal costo del lavoro (essendo la produzione di servizi labour intensive).

E proprio i meccanismi di determinazione del costo del lavoro sono più lenti a far reagire i salari ai prezzi rispetto a quello che si osserva in USA. Ciò ha il pregio di evitare l’innesco rapido di spirali prezzi-salari, e il difetto di prolungare l’eco inflattiva, via via che i contratti collettivi recuperano il potere d’acquisto perduto.

Così, mentre la dinamica dei salari offerti in USA è da tre mesi tornata ai valori pre pandemia,

nell’Eurozona viaggia ancora un punto percentuale abbondante sopra. A tenere alta la media in quest’ultima area sono un po’ tutti i Paesi, con forbici assai ampie: Paesi Bassi +7,7%, Irlanda +4,3%, Spagna +4,1%, Italia +3,9%, Germania +3,5% e Francia +2,1%. Se questi ultimi due sono anche i Paesi che vanno peggio, oltre che quelli che registrano le dinamiche salariali minori, qualche correlazione ci sarà. Comunque, anche nell’Eurozona il raffreddamento dell’inflazione è destinato a proseguire.

Tassi, valute e Borse

I crescenti segni di ritirata dell’inflazione hanno portato a una ritirata dei tassi, specialmente pronunciata per i BTp. Ora che i ‘malati d’Europa’ sono Germania e Francia, l’Italia gode di una relativa stabilità e di una migliore immagine in quello che Dante chiamava «lo gran mar dell’essere» (secondo alcuni calcoli l’Italia è ormai la prima potenza tennistica del terzo pianeta – vedi tabella – a consolazione delle delusioni calcistiche; ma oggi, sabato, facciamo il tifo per Lorenzo Musetti e Jasmine Paolini). Gli spread italici sono in netto miglioramento, sia in relazione ai Bund che ai Bonos e agli OAT francesi (ça va sans dire…).

Classifica ATP – 6 luglio 2024
fra i primi cento tennisti, per nazione
Punteggio cumulatonumero di tennisti
Italia180929
Usa1706311
Russia151986
Spagna120065
Francia1093410
Germania102845
Serbia102213
Argentina80997
Australia79876
FONTE: elab. su dati ATP

Sui mercati dei cambi, il dollaro si è indebolito, di seguito all’ormai comprovata certezza che a settembre la Fed procederà al desiato calo del tasso-guida a settembre. L’indebolimento del biglietto verde si è dato sia contro euro che contro yuan. Per lo yen giapponese, gli alti e bassi segnalano un fatto strutturale – il forte divario di rendimenti a svantaggio dello yen – e un fatto congiunturale – gli interventi della Banca del Giappone per scoraggiare chi pensa che le scommesse sullo yen siano a senso unico.

Veniamo ai mercati azionari, che meritano qualche analisi più approfondita. Dall’inizio dell’anno Wall Street ha fatto segnare 37 record storici, in media uno ogni 5 giorni… Di solito a queste scalate così rapide si adatta il detto di Bertoldo: “quello che vien su poi viene giù”. É lecito allora chiedersi se i mercati azionari (e non solo quello americano) siano in odore di correzione. Le prodezze delle Borse sono state tanto più sorprendenti in quanto si sono date malgrado una politica monetaria che, a partire dal 2022, ha alzato i tassi di interesse con una manovra restrittiva che non ha precedenti per intensità. Il grafico mostra come, di qua e di là dell’Atlantico, all’irrigidimento della politica monetaria si è accompagnato un anomalo galoppo dei mercati azionari.

Per spiegare la mancata risposta delle Borse alla restrizione monetaria bisogna andare al di là dei tassi e guardare alle condizioni finanziarie in senso lato. L’indice della FRB di Chicago mostra come, nello stesso periodo in cui i tassi-guida salivano senza sosta, i mercati del credito e gli indicatori di rischio e di leva finanziaria, non sono mai saliti al di là del valore che corrisponde a condizioni restrittive; e anzi, negli ultimi sei mesi – quelli che hanno visto i 37 record di cui sopra – le condizioni finanziarie si sono fatte più permissive. Nell’Eurozona la Bce pubblica un indice di rischio sistemico (che riguarda soprattutto i rischi sovrani, che naturalmente preoccupano i mercati), ma anche questo indicatore dà segnali di benevola noncuranza.

Fonte: Federal Reserve Bank of Chicago

Torniamo alla Borsa-regina, Wall Street: le quotazioni, dall’inizio del 2019, sono più che raddoppiate, sopravanzando – e di molto – la crescita del Pil nominale. Come si può constatare, non c’è molta differenza fra l’andamento delle 500 società che compongono lo S&P500, e quelle che sono contenute nel Wilshire 5000. Forse perché anche nel secondo giocano un ruolo preponderante le ‘Magnifiche Sette’ (Nvidia, Meta, Tesla, Amazon, Microsoft, Alphabet, Apple) che, con le immense capitalizzazioni e gli stratosferici margini di profitto, hanno tirato la volata delle Borse Usa?

Certamente, le ‘Sette meraviglie’ hanno giocato un grosso ruolo, come si vede da un semplice confronto fra lo S&P500 (l’indice è ponderato) e il Dow Jones (non ponderato). Quest’ultimo è aumentato (da inizio 2029) molto meno del primo, ma in ogni caso ben più del Pil nominale. Tuttavia, le quotazioni seguono gli utili societari più che il Pil, e la performance di Wall Street potrebbe voler dire semplicemente che i profitti siano aumentati più velocemente del Pil. Tesi che è passibile di un controllo sui dati di contabilità nazionale (CN).

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La CN americana dà stime dei profitti societari prima e dopo l’imposta, con o senza gli aggiustamenti (CCA e IVA) per riportare gli ammortamenti e le scorte dal costo storico al costo di sostituzione. La definizione di profitti di CN più prossima ai conti delle società è quella degli utili dopo l’imposta e senza CCA e IVA. Queste stime, elaborate dal Bureau of Economic Analysis hanno il solo difetto di essere poco tempestive (le ultime riguardano il 1° trimestre 2024), ma sono utili perché permettono di confrontare la ‘saggezza delle folle’ (che talvolta è, appunto, non saggia ma ‘folle’), in quanto rappresentata dalle quotazioni di Borsa, con i sobri calcoli della CN. Le due variabili dovrebbero andare di conserva, a parte urti di breve periodo, provenienti da cigni e cignetti neri. Il confronto fra Wall Street e altri freddi numeri (che, ha detto qualcuno, sono come le spille ai palloncini) aiuterebbe a capire.

Certamente, ci sono differenze fra i due universi. L’universo delle quotazioni azionarie non è, ammettiamolo, molto universale, mentre i profitti di contabilità nazionale coprono tutte le società americane, sia quelle quotate che le non-quotate. Il confronto nel grafico usa, per le quotazioni, l’indice Wilshire 5000 (che, nel corso della sua storia, ha ridotto le società che lo compongono dalle circa 5000 originarie – nel 1974 – alle 3403 censite al 31 dicembre 2023); tuttavia, anche se non esaustivo, data la sua numerosità, si può considerare l’indice Wilshire rappresentativo dell’universo societario. I profitti realizzati all’estero dalle società quotate non sono un problema, perché sono inclusi negli utili di contabilità nazionale (e, per le società quotate sono una cospicua fetta – circa il 40% – dei profitti di Wall Street).

Le tre grandezze (Wilshire 5000, e profitti netti con o senza gli aggiustamenti) sono state trasformate in numeri indici che partono dal 1995, anzi, per essere più precisi, dal terzo trimestre del 1995 (un anno prima che Alan Greenspan pronunciasse il famoso discorso sulla “esuberanza irrazionale” della Borsa americana). Si è scelto un anno base lontano nel tempo perché la relazione fra Borsa e profitti può essere disturbata da millanta fattori che offuscano il parallelismo nel breve periodo.

Come si vede, le quotazioni hanno corso più degli utili e suggeriscono prudenza, date le crescenti possibilità di una correzione dell’euforia recente. Un’euforia che non riguarda, peraltro, tutte le latitudini e le longitudini. Il grafico degli indici mondiali mette al primo posto i mercati dei Paesi avanzati (WSCI World) e i mercati di tutti i Paesi (MSCI ACWI), peraltro trainati dai primi. Ma, se isoliamo l’indice dei 23 Paesi emergenti (MSCI Emerging Markets) non vediamo segni di particolare baldanza.

Fra gli emergenti ci sono i mercati russi e quelli cinesi: in questi tempi di acceso antagonismo fra Occidente e Oriente, fra Nord e Sud, fra autocrazie e democrazie, almeno le Borse indicano chi è avanti nel confronto.

Categories: Finanza e Mercati