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Le Big Four beffano il Covid: 30 miliardi di utili in 3 mesi

FIRSTonline

Nel 1939, pochi giorni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Joseph Schumpeter, economista austriaco esule ad Harvard, diede alle stampe “Cicli economici”, dedicato alle varie fasi dello sviluppo che lui scompone in diversi momenti (espansione, recessione, depressione, ripresa), legati alle varie onde sollevate dalle innovazioni epocali maturate grazie alla “distruzione creativa”, il processo selettivo attraverso cui molte aziende spariscono, altre ne nascono, qualcuna si rafforza.

Parole quasi profetiche per descrivere il processo che, complice la pandemia, ha creato una frattura più profonda della faglia di San José fra l’economia così com’è stata intesa prima della rivoluzione digitale e il Nuovo Mondo, messo alla berlina al Congresso Usa per i danni sociali che s’accompagnano alla rivoluzione, ma capace di celebrare il suo trionfo nel giorno in cui i numeri della pandemia confermano la gravità della recessione più profonda della storia.

A fronte del calo del Pil Usa di quasi dieci punti percentuali in un solo trimestre, figura l’incertezza della politica economica, divisa sui sussidi per milioni di disoccupati a poche ore dalla scadenza dei provvedimenti precedenti, e della politica tout court, messa a soqquadro dalla proposta indecente di Donald Trump sul rinvio delle elezioni.

Ma l’altra faccia della medaglia racconta di una crescita addirittura sfrontata, così violenta rispetto alle ambasce della crisi, da convincere lo stesso Jeff Bezos, ormai l’uomo più ricco del pianeta nonché primo datore di lavoro privato degli Usa, a cercare di occultare gli enormi profitti raccontando che i costi del distanziamento sociale avrebbero portato Amazon in rosso. Bugia dalle gambe molto corte, com’è emerso dai conti.

Il re dell’e-commerce ha chiuso il trimestre con 5,2 miliardi di dollari di utile, pari a 10,3 dollari per azione, il doppio del risultato di un anno prima e sette volte sopra le attese: a fornire a Bezos i quattrini necessari per le sue avventure spaziali è la leadership incontrastata nei prodotti, sempre più numerosi, che, per avere accesso al commercio elettronico, devono passare dal gigante che gestisce i canali d’accesso al consumo. Un po’ per tutto, anche per i pannolini, com’è emerso nell’audizione al Congresso.

Una situazione simile è emersa anche per gli altri Big: Alphabet, di fronte al calo della pubblicità online, ha potuto rifarsi sulle reti d’accesso dettando le sue condizioni ai fornitori piccole e grandi nonché all’universo delle imprese alimentate dagli annunci che passano dal motore di ricerca.

Godono di scandalosa buona salute i prodotti Apple, per la gioia dei soci gratificati dallo split dei titoli che si tradurrà in nuovi guadagni. E che dire della sfrontata fortuna di Facebook? Crescono le accuse sulle fake news, gli inserzionisti minacciano di boicottare il social network che non sceglie tra buoni e cattivi. Il risultato? Il raddoppio dei profitti rispetto allo scorso anno a 5,2 miliardi di dollari. Gli utenti attivi su base mensile sono saliti a 2,7 miliardi. Tutte le metriche hanno stracciato le aspettative degli analisti. I giornali si accontentino dei piatti di lenticchie offerto da Zuckerberg.

Il verdetto è senza appello. La strategia Ue di applicare forti pedaggi fiscali per compensare i mancati introiti dei vari Stati è stata vanificata dalla sentenza Ue a favore di Apple. La nomina di un irlandese alla guida del Consiglio Ue è il segnale che, in cambio del Recovery fund, i 28 governi hanno rinunciato a un miraggio di ferro che, data la forza dei Big Four (30 miliardi di utili in un solo trimestre su 200 miliardi di dollari di ricavi) sembra impari.

A meno che non si riveli più fruttuosa la strategia adottata di recente da alcuni Paesi, a partire dalla Germania. L’obiettivo è garantire parità di trattamento sulle reti web per i prodotti indipendenti rispetto a quelli promossi, a vario titolo, dai monopolisti del web. Andrà così? Forse, ma nel frattempo i novelli Attila devasteranno anche l’editoria, l’industria musicale e tutti gli altri settori (compreso il vino) ormai nella Rete.

A meno che non si realizzi la profezia di Schumpeter, nella grande impresa capitalistica il ruolo dell’imprenditore, creativo e diretto all’innovazione, tende a esser sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all’immobilismo dei manager, perciò si affermeranno nel tempo valori contrari allo sviluppo capitalistico. La stabilizzazione, sostiene l’economista, si realizza in cinquant’anni: chi vivrà vedrà.

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