Ora che la riforma del credito cooperativo, dopo quella delle banche popolari dello scorso anno, è in dirittura di arrivo, debbo esprimere soddisfazione nel vedere recepito un punto sul quale avevo formulato anche su questo giornale alcune considerazioni. Vale a dire quello di una way out imperniata sulla cessione in blocco di attività e passività da parte di una o più BCC (almeno una con patrimonio superiore a 200 milioni) ad una banca spa – da far restare sotto il controllo delle cooperative scorporanti – e sulla preservazione della indivisibilità delle riserve.
Resta qualche perplessità sul fondamento giuridico dell’imposta, tra l’altro elevata, che accompagna la way out. Ma non credo che sarà difficile farsene una ragione, anche perché per il socio di una BCC che voti per la non adesione al gruppo cooperativo la convenienza sarà tanto maggiore quanto più la composizione del patrimonio è concentrata nelle riserve, che sosterranno la maggior parte dell’onere fiscale, e meno nel capitale che è la parte di sua pertinenza. Non sembri un paradosso, ma, a parità di altre condizioni, più si è preservata nel tempo la natura cooperativa della banca e più conviene ora al socio il modello della società per azioni.
I tempi ristretti per esercitare l’opzione e la valutazione della Banca d’Italia circa la sostenibilità dei progetti di uscita confermano il carattere di eccezione di tale scelta, escludendo che si tratti di modello alternativo a quello individuato per rafforzare il cooperativismo bancario nel suo complesso. È soltanto la salvaguardia per chi ritiene di intraprendere una diversa strada, al fine di valorizzare al meglio quanto ha saputo finora costruire. Soprattutto deve trattarsi di una scelta consapevole di solidità finanziaria, nella prospettiva di interpretare una nuova modalità di banca del territorio. Questa tipologia, tanto rilevante per l’economia del paese, è uscita infatti con gravi squilibri dalla crisi economica e dall’inadeguata azione di contrasto delle sue strutturali carenze.
Ho anche sostenuto l’esigenza di superare i vincoli operativi previsti per le BCC, in ragione delle dimensioni raggiunte da alcune di esse e della possibilità di sviluppare, non derogando ai caratteri di prudenza, politiche di crescita e di differenziazione dei rischi, secondo lo schema più riconoscibile dal mercato, cioè quello della società per azioni.
Questa soluzione viene per lo più ascritta all’azione propositiva del network Cabel, quale esito della proficua interlocuzione con il movimento bancario cooperativo, con le centrali cooperative e con le autorità nella fase precedente all’approvazione della riforma in sede parlamentare, nel rispetto dei principi della cooperazione e avendo presenti i casi di conferimento in società per azioni di asset cooperativi sperimentati con successo in settori diversi dal credito. All’indomani del passaggio parlamentare questa modalità di way out è stata commentata favorevolmente tanto dalla Banca d’Italia, quanto da Federcasse.
Ove prescelto, il percorso richiede rilevanti cambiamenti, sostenuti dalla finalità di una maggiore efficienza gestionale, con rinnovati processi decisionali e di controllo. Saranno punti essenziali dei piani strategici da portare a supporto delle richieste nei sessanta giorni previsti per l’esercizio dell’opzione dopo l’entrata in vigore della legge.
Ma non sarà ancora sufficiente, perché i progetti trarranno la loro credibilità non soltanto dalla dimostrazione della volontà di ampliamento e differenziazione del business (più servizi, più customer care, più allineamento alle tendenze del mercato), ma anche dalla concreta capacità di governo dei costi di produzione e di distribuzione.
In un contesto di assottigliamento dei margini e di ridotta propensione al rischio creditizio, i recuperi di redditività spingono per lo più verso interventi di razionalizzazione per accrescere la produttività delle strutture e del fattore lavoro.
Con analoghi obiettivi di efficienza, l’outsourcer Cabel ha invece dato luogo, nella stessa unità di tempo delle riforme istituzionali, a una strategia di allineamento alle principali direttrici di sviluppo tecnologico, secondo una logica di investimento, piuttosto che di riduzione e di tagli.
Lo ha fatto attraverso un accordo di partnership, ora all’avvio, con uno dei maggiori operatori internazionali interessato a proporre al mercato italiano la propria architettura informatica di core banking, che è già uno standard per l’industria bancaria di molti paesi.
In questo progetto è vitale la capacità di innestare sulla piattaforma tecnologica sviluppata secondo un innovativo connubio tra hardware e software i requisiti funzionali del banking italiano. Localizzare un sistema informatico, per quanto evoluto e robusto, significa infatti adattarlo con successo alle peculiarità del contesto normativo di riferimento.
Questa operazione, in specie in un paese come il nostro connotato da specificità non secondarie nella fiscalità, nel reporting verso le Autorità, in alcune tipologie di business e in altri campi di operatività, potrà consentire il superamento di barriere all’entrata che hanno finora protetto i fornitori domestici di software bancario, ma che hanno anche determinato una qualche arretratezza rispetto ai più evoluti sviluppi. Questi ritardi hanno impattato tanto sui costi dell’informatica quanto sui tempi per fare evolvere la relazione banca-cliente secondo una maggiore flessibilità e adattabilità delle applicazioni core a nuovi e crescenti fabbisogni.
Pertanto per le banche, avere una macchina IT capace di rispondere in maniera “agile” alle aspettative del mercato è diventata un’esigenza sempre più stringente. Il ruolo dell’IT, come propulsore di innovazione e fattore abilitante per la creazione di nuovi servizi a valore aggiunto per i clienti, è quindi centrale, tanto per ridurre i carichi di lavoro dei dipartimenti IT e ottimizzare i tempi di sviluppo del software quanto per garantire un time-to-market più rapido dei prodotti bancari.
La maggiore economicità di gestione e manutenzione degli applicativi di base (anagrafe, conti correnti, depositi, mutui, pagamenti, finanza, contabilità, etc.) imprimerà una forte accelerazione all’automazione dei processi e allo snellimento delle attività di back-office.
La cooperazione tra Oracle e Cabel, il cui comunicato stampa congiunto è stato pubblicato nei giorni scorsi anche da questo giornale, prende la forma del coinvestimento, puntando a rendere l’architettura service oriented denominata Oracle Flexcube fruibile tanto per le banche che mantengono le risorse informatiche in casa quanto per quelle che le esternalizzano.
Potrà rappresentare un primo passo per uscire dalla costosa frammentazione dei sistemi informatici, sui quali hanno impattato sia i contenuti investimenti di questi anni sia la scelta di concentrarsi sulle applicazioni di front-end, per rendere le presentazioni informatiche delle attività più accattivanti, ma mettendo anche in seconda linea la risoluzione delle inefficienze connesse con i sistemi storici di back-end, compresa la definitiva affermazione delle logiche di servizio proprie delle piattaforme più recenti.
Il rinnovamento delle applicazioni core è fondamentale anche per il passaggio alla banca digitale centrata sulla gestione di relazioni di clientela tramite device mobili, quali smartphone e tablet, per un banking esteso, multicanale e interoperabile, imperniato sui tempi e sulla qualità di risposta (in termini di flessibilità e sicurezza) delle funzionalità attivate.
A tale proposito, è da accennare alla concorrenza crescente che verrà esercitata nei confronti di tutte le banche, qualsiasi ne sia la dimensione e la forma istituzionale, dalle grandi piattaforme social e dei servizi P2P. Queste entità, ormai note come GAFA banks (Google, Amazon, Facebook e Apple), quando hanno deciso di orientarsi verso l’offerta di servizi sempre più simili a quelli bancari, hanno massicciamente e in primo luogo investito nei propri sistemi core.
L’ingresso di Oracle sul mercato italiano dell’IT appare anche coerente con il nuovo quadro europeo dell’Unione Bancaria (lo stesso gruppo unico cooperativo in fieri sarà probabilmente un intermediario bancario significant), per uscire da soluzione autoctone delle componenti informatiche ovvero da modelli consortili di outsourcing, che, come emerge anche dal rapporto 2014 della Banca dei Regolamenti Internazionali dal titolo “Non banks in retail payments”, richiedono importanti cambiamenti.
Joint venture come quella qui descritta possono quindi mutare in positivo la gestione dei rischi operativi delle banche retail, aiutandone i profili di redditività che, insieme alla questione delle rettifiche sui crediti, sono per non poche di esse risultati critici al termine delle prime verifiche della vigilanza unica europea.
Un punto di sintesi conclusivo è che il rinnovamento istituzionale, promosso con le riforme, e quello tecnologico, anche mediante collaborazioni internazionali, sono a ben vedere due lati interdipendenti dell’istanza di trasformazione dell’industria bancaria nazionale, senza dubbio complessi da gestire, ma, al tempo stesso, non più rinviabili. Il network Cabel intende partecipare attivamente alla promozione di questi cambiamenti, affinché le banche, ivi comprese quelle di minori dimensioni, entrino a pieno titolo nel contesto produttivo del banking europeo.