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Le banche viste da Davos: addio sportellite e innovazione continua o non c’è futuro

A Davos quest’anno si parla meno di finanza e più di economia, diseguaglianze, industria 4.0 e, in sintesi, di “come uscirne”.

In realtà la finanza non è del tutto assente ed ha anzi caratterizzato la prima giornata del Forum – e non solamente per le violente oscillazioni della sterlina che sembra rimbalzare impazzita a seguito del discorso del Prime Minister britannico Theresa May. Sin dalle prime ore del mattino – perché qui a Davos gli incontri iniziano alle 7 con le prime colazioni – i temi della tecnologia e dell’innovazione al servizio della finanza sono apparsi come illuminati da riflettori potentissimi. Cosa è successo? 

Se qualche anno fa i temi connessi alla tecnologia applicata alla finanza, più genericamente definita “fintech”, erano relegati a momenti isolati e verticali come blockchain o sistemi di pagamento avanzati, e se l’anno scorso i profeti della tecnologia applicata aizzavano le folle dei leader raccolti a Davos con uno smartphone in mano dicendo “La mia banca è tutta qui dentro” (fatto peraltro comprensibilmente vero nel medio termine), oggi la novità da Davos 2017 è che i CEO delle grandi banche hanno cominciato ad impossessarsi direttamente di tecnologia e innovazione in banca. Lo hanno fatto ambientando entrambe in una cornice che non si riduce solamente ad un innamoramento sistematico per la novità in se stessa. 

Innovazione tecnologica dal volto umano? Decisamente no. La tecnologia e l’innovazione al servizio della banca restano viste come modi per fare meglio il business, per raggiungere meglio il cliente, per ridurre i costi, per migliorare i processi; in definitiva, per fare meglio ciò che le menti pensanti delle banche desiderano da sempre fare, e cioè consegnare al cliente il migliore prodotto possibile guadagnando ciò che è giusto guadagnare. 

I problemi connessi allo scaricamento a terra di questi desideri di innovazione tecnologica sono enormi. Da un lato, l’innovazione tecnologica in banca è costretta dall’incudine del regolatore – e sappiamo che di regolatori ce ne sono ormai tanti -, che fatica ad accettare l’innovazione tecnologica, è vissuto come strutturalmente ostile o quantomeno refrattario perché l’innovazione è portatrice di novità, quindi di rischi; dall’altro lato, il martello del mercato e del cliente che chiede sempre più semplicità di accesso ai servizi bancari, ad un costo sempre più basso, in un contesto di sempre maggiore invisibilità per la banca o per le istituzioni finanziarie che erogano il servizio. 

Tra l’incudine del regolatore e il martello del cliente i CEO delle banche optano, con determinazione, a favore del cliente. 

Un po’ da tutte le parti emerge il concetto che se non ci sarà innovazione tecnologica usciremo tutti dal mercato, espulsi dalla incapacità di rispondere ai bisogni dello stesso per fare spazio a nuove imprese che si occuperanno di gratificare i bisogni di clienti sempre più esigenti. 

Ergo, non vi sono scelte. 
Bisogna innovare. 

Consentire al cliente esperienze positive nel rapporto con la banca, seguirlo, coccolarlo, dargli i prodotti ed i servizi che domanda, e contemporaneamente non vendergli più ciò che non chiede, non distribuire mai immondizia priva di valore, evitare che si senta trattato come un limone da spremere fino all’ultima goccia. 

Per fare tutto questo, per essere sul mercato in tempi rapidi e inseguendo con efficienza gli stimoli che il mercato propone, è necessario essere capaci di costruire i prodotti e servizi della banca in maniera snella, intelligente, flessibile, tempestiva. 

Tutto questo non si può fare operando in maniera tradizionale. La tradizione in banca – soprattutto, ma non solo nelle banche italiane – è fatta di tecnologia obsoleta, programmi difficili da mantenere, figuriamoci se capaci di recepire innovazione, strutture e tecniche non coerenti con le esigenze del mercato. Per questo i CEO delle banche e delle istituzioni finanziarie sono molto attenti a fare le cose in maniera semplice, utilizzando modi di programmare che seguono la filosofia dell’àgile (o agìle, nella pronuncia anglosassone): un credo che predilige il software funzionante, capace di cambiare rapidamente, non le procedure molto strutturate di tutte le banche italiane ed europee, che richiedono mesi o anni per essere messe a disposizione dei clienti e delle strutture. 

Certo, sono queste le procedure che, quando finalmente arrivano, si presentano al mercato ben documentate, ben scritte, ben impostate. Ma con un “piccolo” difetto: ci hanno messo troppo ad arrivare al punto finale, ad essere “portate a terra”, e se ci sono alcuni errori o ripensamenti si riparte da capo in un percorso lungo anche molti mesi. 

Quindi agilità, applicazione intelligente della tecnologia e soprattutto menti aperte a recepire una innovazione che, prima di essere costituita su un senso rigido del processo, utilizzi la tecnologia per fare il meglio per il cliente. 

In Banca IFIS stiamo andando da tempo in questa direzione. Si tratta di reimpostare il modo di fare business, e lo stiamo facendo anche noi, nonostante non abbiamo tanti dei problemi che le banche tradizionali invece hanno. 

Innovare non è una cosa che decidi di fare come progetto straordinario “una volta ogni tanto”. Innovare è una condizione permanente, uno stato della mente e dell’anima, che ha a che fare con il modo in cui viene inteso, in banca, il modo di evolvere nei confronti del cliente e di andargli sistematicamente incontro il più possibile. 

Innovare ha a che fare con le logiche della società liquida di Bauman, nella quale  il cambiamento è infinito e richiede, pertanto, continue manovre di aggiustamento per ottenere il risultato desiderato. 

Se in Banca IFIS stiamo procedendo rapidamente in questa direzione – ovviamente non ancora soddisfatti del risultato raggiunto, ma consapevoli della necessità di profondere ogni sforzo per raggiungere i nostri obiettivi, e consapevoli anche che una volta che li abbiamo raggiunti dovremmo continuare negli sforzi di innovare, appunto, senza fine – c’è da chiedersi quale sia la situazione intorno a noi. Una cosa è chiara ormai a tutti, e cioè che non c’è più spazio, o ce ne sarà sempre meno, per quell’ “intermediario della diffusione dei prodotti decisi dalla banca”, che é lo “sportello tradizionale” proprio delle banche commerciali retail. Quell’intermediario allontana la banca dal cliente usando la scusa della “relazione” rendendo invece sempre troppo complicato quel dialogo che tra banca e cliente deve essere incessante.

Per migliorare, poi, conta le qualità costante dei prodotti e servizi. Le banche scandinave se ne sono rese conto e hanno cambiato con grande determinazione il loro modello di business riducendo in maniera drastica la presenza di sportelli a favore dell’online. Si dirà che molte persone non sono in grado di andare online. Risposta facile: per queste ci sono alcune banche locali e di prossimità che continueranno ad esistere per aiutare le persone meno avvezze alle tecnologie. Penso alle BCC nonché a strutture come BancoPosta, creati anche per questo motivo. Le banche scandinave oggi valgono più del loro patrimonio netto in Borsa mentre le italiane ed europee valgono molto, ma molto meno – sino agli estremi che conosciamo per alcune banche italiane piene di crediti deteriorati. 

Abbracciare l’innovazione tecnologica in questo modo è inevitabile per le banche, e quindi è inevitabile nel medio e forse anche nel breve termine prendere per mano con determinazione il problema dell’eccesso di sportelli. La famosa “sportellite” di cui abbiamo parlato in altre occasioni.

Se le banche non saranno capaci di ritrovare (o rinnovare, per stare in tema) business model capaci di generare profitti, allora non riusciranno ad uscire dal circolo vizioso che richiede che esse si liberino dei crediti deteriorati tramite la generazione di profitti, per poter stare sul mercato e fare business in maniera adeguata e coerente con le aspettative degli azionisti.

Il tema, me ne rendo conto, è sempre lo stesso. Ma se questo non accade – e nonostante gli stimoli al cambiamento arrivino da ogni parte del mercato questo fino ad ora si è visto solo in misura insufficiente – nessuno mai sottoscriverà un ulteriore aumento di capitale di una banca che perde. Così come oggi nessuno sottoscrive aumenti di capitale di banche italiane se non immaginando in prospettiva che queste banche cambieranno business model per generare ulteriori profitti. É un fatto propedeutico. Chi non si adegua a questa logica è destinato a rinviare un calvario che continuerà purtroppo per molti anni. L’innovazione tecnologica è diventata anche un elemento catartico fondamentale per impegnare le banche al cambiamento.

Da Davos ciò che diventa evidente è la consapevolezza dei vertici delle grandi banche europee. Quelle di oltreoceano ce l’avevano già da tempo. Intanto però il costo del non fare per noi in Italia continua a crescere.

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