BlackBuck, Payoneer, Face++. Segnatevi questi nomi, e non solo per l’assonanza con realtà più note: perché queste app potrebbero essere le Facebook e le Google del futuro. A stilare una lista di 100 potenziali Big Tech del futuro, provenienti dai mercati emergenti, è il Boston Consulting Group: tra queste ci sono appunto la cinese Face++, società di Intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale, l’indiana BlackBuck, la piattaforma di servizi tecnologici per i trasporti, e l’israeliana Payoneer, specializzata nei pagamenti digitali. Sono proprio Cina (40), India (27, compresi i Paesi intorno) e Israele (9) i Paesi più rappresentati nell’elenco di future star del tech stilato dal BCG, ma in realtà la geografia è abbastanza variopinta. Non stupirebbe infatti se la nuova app di riferimento della ristorazione fosse la brasiliana iFood, o se sempre dal Brasile arrivasse la nuova Uber, ossia la app 99, leader nel trasporto privato.
In classifica è ovviamente ben rappresentata anche la Corea del Sud: sono già delle solide realtà il social network Kakao, nel frattempo diventato anche una piattaforma per giochi e una banca mobile, e la app di servizi finanziari Viva Repubblica, scaricata da un terzo della popolazione locale e già nel 2016 insignita del Google Playstore App of the Year. Ma c’è spazio anche per l’Africa, che piazza ben tre pretendenti all’ambito trono di Apple del futuro: compaiono nella graduatoria del BCG la kenyota M-Pes per i pagamenti digitali, l’e-commerce nigeriana Jumia (nel frattempo trapiantata in Germania) e sempre nel campo dello shopping online la sudafricana takealot.com.
Tutte queste realtà messe insieme, secondo l’analisi del Boston Consulting, hanno in media una valutazione di mercato di 6,3 miliardi di dollari e un fatturato di 2 miliardi: numeri chiaramente inferiori a quelli dei concorrenti delle economie sviluppate, ma che crescono sei volte più veloci, aumentando il fatturato almeno del 70% ogni anno. Per fare un esempio Sea Group, sviluppatore di videogiochi online di Singapore, addirittura ha incrementato il giro d’affari del 163% fra 2018 e 2019 e moltiplicato 3,5 volte il valore di borsa da aprile di quest’anno, toccando i 72 miliardi di dollari. Qualcosa insomma si muove al di fuori dalla Silicon Valley e dalla costa est della Cina, che oggi da sole ospitano 7 delle prime 10 società al mondo per capitalizzazione di mercato.
Due terzi delle società che le incalzano operano in ambito B2c con app e servizi ai consumatori, un terzo nel B2b. Utilizzano un ampio ventaglio di tecnologie sia hardware che software (come cloud computing, social media, gaming, intelligenza artificiale, advanced analytics, sicurezza informatica, semiconduttori, robotica) nei settori più diversi, dall’istruzione all’assistenza sanitaria, dalla logistica ai servizi finanziari. Se il sogno americano della Silicon Valley è nato di solito in un garage o in uno studentato, gli sfidanti tecnologici sono spesso creati “in laboratorio”. I tech challengers cinesi sono frequentemente finanziati dal governo, altrove sono frutto della collaborazione tra università, imprese e autorità pubbliche, come il polo industriale Block 71 di Singapore, lo Skolkovo Innovation Center in Russia, le realtà di Bangalore in India o di Israele. In altri casi, sono costole di grandi conglomerati che mettono risorse industriali e finanziarie al servizio di startup.
C’è poi un’altra grande differenza, che potrebbe fare la… differenza: rispetto ai più avvantaggiati rivali d’Occidente, i big tech emergenti tendono a collaborare fra loro creando ecosistemi diversificati per attività e geografia: secondo un’analisi di Bcg, i migliori ecosistemi digitali contano circa 40 partner e si estendono su 10 o più Paesi. Un’impostazione molto diversa rispetto a quella monopolistica o oligopolistica perpetrata da tempo dalle varie Google, Microsoft, Facebook, Amazon. Pagherà?