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Lavoro, uccidere il contratto a termine è un delitto inutile (e un errore)

FIRSTonline

Le aziende fanno troppi contratti a termine? Basta vietarli! Saranno obbligate a fare solo contratti a tempo indeterminato! Nessuno lo declinerebbe così, ma questa è la sintesi di un riflesso pavloviano che ancora infesta parte della sinistra politica e sindacale. Gli effetti sul mondo reale di questa cultura sono osservabili nella recentissima “riforma” dei voucher: effetti di regolarizzazione marginalissimi, perdita di reddito per le persone o sparizione di prestazioni lavorative nel sommerso.

E per compiacere questa cultura qualcuno pensa di “dare un segnale”, per esempio tagliando la 36 a 24 mesi il termine massimo complessiva di un contratto. Lo scopo politico è comprensibile, anche se discutibile. Il risultato concreto quale sarà? Secondo noi sostanzialmente nullo. Per fortuna la Commissione Bilancio della Camera ha ieri rinunciato agli emendamenti che prefiguravano una stretta sui contratti a termine, che è stata derubricata.

Ma cerchiamo di spiegare come stanno le cose.

Oggi il contratto a termine (dopo le riforme Fornero e Padoan) può essere attivato, senza vincolo di causale, da 1 giorno fino a un massimo di 36 mesi. Un contratto può essere prorogato, con la stessa impresa, fino a 5 volte, purché non si superi i 36 mesi totali. Si può prorogare un ulteriore anno ma solo con accordo sindacale.
Parrebbe che una riduzione di 1/3 della durata consentita possa provocare novità significative. Ma non è così. Praticamente nessun contratto a termine arriva mai ai fatidici 36 mesi, e se ci arriva vuol dire che si tratta di un lavoratore che interessa seriamente all’impresa, che a quel punto se lo assume definitivamente. Va ricordato, infatti, che il costo di un lavoratore a tempo determinato costa all’impresa quanto un lavoratore
equivalente stabile.

Ma, come sempre, vediamo qualche dato. Utilizziamo quelli del Ministero del Lavoro 2016, relativi all’anno 2015. Ma non c’è motivo di pensare che dati più recenti siano diversi. Una premessa: i dati successivi sono al netto dei contratti della durata di uno o due giorni, che convenzionalmente vengono conteggiati a parte.
Nel 2015 il 36,9% dei contratti a termine attivati aveva durata iniziale pari o inferiore a un mese. Il 24,7% da 1 a 3 mesi; il 20% da 3 a 6 mesi; il 16,7% da 6 a 12 mesi; sopra i 12 mesi solo 1,7%. La possibilità di proroghe cambia significativamente questa situazione? No: nel 2015 solo un contratto su quattro viene prorogato. Ancor più significativo il dato della sopravvivenza di contratti a tempo determinato: dopo 12 mesi sono il 4,9%. In sostanza, praticamente nessun contratto a termine raggiunge la fatidica soglia dei 36 mesi. E pochissimi anche quella dei 24. Quindi, l’intervento per portare i 36 mesi a 24 non produrrebbe quasi effetti.

Se volessimo davvero rendere difficili i contratti a termine ( se fosse davvero questo l’obbiettivo politico realmente condiviso) dovremmo intervenire sulla causale: oggi è sostanzialmente libera, ma si potrebbe vincolarla a situazioni particolari, tipo sostituzioni per maternità o malattia. Però quando le imprese hanno bisogno di mano d’opera in relazione a fasi occasionali non programmabili trovano risposta adeguata appunto nei contratti a termine. Occorre tenere presente che la gran maggioranza dei contratti a termine vengono attivati da imprese del comparto agricolo, turismo, ristorazione, pulizie. Mentre quelle più “strutturate” (essenzialmente industria in senso stretto) ne attivano molto meno, ma in compenso attuano la stragrande maggioranza delle trasformazioni in contratti a tempo indeterminato (oltre il 60%), segnalando così un fenomeno non enorme ma significativo: ossia l’utilizzo del contratto a termine come “periodo di prova lungo” in funzione della stabilizzazione.

Se proprio volessimo renderli meno convenienti, potremmo aumentarne il costo. Per esempio aumentando i contributi, per coprire i periodi di non-lavoro, oppure consentendo il contratto a tempo determinato solo tramite somministrazione.  Ma sarebbe irreale pensare di obbligare le imprese a trasformare in questo modo contratti a termine in contratti a tempo indeterminato: molto più realisticamente aumenterebbero gli straordinari e il lavoro nero, che peraltro prospera già appunto nei comparti che sono i maggiori utilizzatori di contratti a termine. Più efficace appare essere l’intervento sul lato dell’offerta di lavoro, con strumenti che
alleggeriscano il costo del lavoro: nel caso specifico, dei contratti a tempo indeterminato. Anche qui però con qualche cautela: la decontribuzione del 2015 determinò un salto spettacolare delle assunzioni a tempo indeterminato, ma lo scalino statisticamente rilevato è tornato ad essere piatto appena finito l’incentivo.

Val la pena prendere in considerazione un esperimento analogo effettuato in Svezia. Qui il taglio era per i giovani nuovi assunti o già al lavoro, e si intendeva essere permanente. Riduceva del 50% il cuneo fiscale a carico delle imprese. In termini di crescita occupazionale il risultato è stato circa 2% in più di nuove assunzioni, ma soprattutto c’è stato un calo dei licenziamenti. Ma ancor più significativi sono stati gli “effetti collaterali”: le aziende che lo hanno usato hanno avuto migliori risultati sia salariali che occupazionali, e
c’è stata una distribuzione tra tutti, lavoratori giovani e non giovani e imprese, dei vantaggi fiscali.
Resta da capire che succede se l’incentivo finisce…

A questo punto vale in primo luogo una considerazione elementare che troppi dimenticano: la crescita dell’occupazione è l’effetto della crescita della domanda di beni e servizi. La riduzione dei costi contributivi e del prelievo fiscale se non è strutturale ( e compatibile con gli equilibri del Bilancio statale) può produrre risultati certo positivi ma non permanenti.

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