I tempi cambiano. Una volta si diceva ‘’lavorare meno per lavorare tutti’’. Oggi l’obiettivo sembra essere “lavorare meno per lavorare, e vivere meglio”. Da qualche mese il fantasma della riduzione dell’orario a parità di salario è tornato a circolare per l’Europa sotto specie di settimana lavorativa di 34 ore. Sotto questa etichetta si raccolgono parecchie variabili che tentano di rispondere ad esigenze diverse. In primo luogo, le differenze riguardano le modalità di attuazione del nuovo calendario. In talune esperienze si tratta solamente di una redistribuzione del normale orario di lavoro su 4 giorni anziché su 5 (giornata più lunga in cambio di settimana più corta).
Sembra che l’esito finale sia un weekend più lungo e che la maggiore occupazione, così, la si realizzi nel turismo e nei relativi servizi. Così al decongestionamento delle città corrisponderebbe un maggiore traffico nelle autostrade. Questa sarebbe una forma di riduzione d’orario un po’ primitiva e non generalizzabile laddove sono in funzione cicli continui. Si direbbe piuttosto una misura a favore del personale amministrativo, che pure è in crescita, ma non fa girare le macchine automatiche negli opifici. Più che una risposta all’obiettivo del pieno impiego (che in Europa è sempre più un problema che riguarda l’offerta di lavoro) sembra rientrare nel nuovo atteggiamento che i lavoratori manifestano verso il valore/lavoro dopo la pandemia, l’uso dello smart working e quant’altro. In sostanza siamo nel campo di una narrazione che ha girato il mondo, subito dopo il picco della emergenza sanitaria con le relative limitazioni per le libertà personali più elementari.
La “moda” delle dimissioni volontarie ha contagiato anche l’Italia
Di questa narrazione i vari episodi sono stati, dapprima, la Great Resignation, dove si è voluto intravvedere la presenza di una scelta di vita (il ritorno dei ‘’figli dei fiori’’) piuttosto che degli squilibri nel mercato del lavoro prodotti dagli effetti della pandemia e delle modalità che hanno consentito di proseguire nella propria attività attraverso il ricorso allo smart working. Da noi, sicuramente, si è trattato di una reazione ad un blocco degli organici (tramite la sospensione dei licenziamenti per circa 500 giorni) che aveva compresso il mercato del lavoro come una molla che è scattata tutta in volta quando è stata liberata dalla compressione innaturale imposta alla normale quotidianità di un’impresa. L’analisi dei dati si è poi incaricata di smentire queste interpretazioni suggestive ed hanno messo in evidenza che quanti rassegnavano le dimissioni (in misura molto più ampia delle cessazioni per recesso da parte del datore) in realtà si promettevano di vendere meglio la propria professionalità, in un contesto di crisi di un’offerta adeguata.
La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
Ma perché sforzarsi di osservare la realtà quando è più gratificante immaginarne una più vicina alle nostre aspettative? Ormai lo si dice apertamente soprattutto da parte di quei giovani che lamentano un rapporto difficile con il lavoro. ‘’La vita non può essere scandita soltanto dal lavoro’’ dicono gli operai e gli impiegati, mentre gli studenti vanno alla inaugurazione degli anni accademici a rivendicare una identità che non si esaurisce con le sessioni di esame e con l’affanno della competitività che talvolta li spinge al suicidio. Come sempre succede con le mode vi è sempre qualcuno che cerca di riciclare vecchi modelli, come la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.
Persino un sindacalista tra i più radicali come il leader della Cgil, Maurizio Landini, si rende conto che una riduzione d’orario così importante non può avvenire a scapito della produttività e della saturazione degli impianti (incluso l’ammortamento degli investimenti in nuove tecnologie): «Di fronte alla rivoluzione tecnologica, che porta ad un aumento di profitti e produttività, si deve praticare – ha affermato Landini – la ridistribuzione della ricchezza e di come viene accumulata, anche attraverso la riduzione dei tempi di lavoro». E come? «Contrattando – ha ammesso il sindacalista – modelli organizzativi su quattro giorni di lavoro settimanali e per le imprese la possibilità di utilizzare gli impianti sino a sei giorni la settimana. Il tutto, prevedendo il diritto alla formazione e all’aggiornamento per tutta la vita lavorativa». In sostanza può e deve esserci una dissociazione tra l’orario effettivo dei lavoratori e quello della attività produttiva dello stabilimento, attraverso il lavoro su più turni, con una calendarizzazione orientata a tener conto dei picchi e dei flessi, non solo nelle produzioni di carattere stagionale, ma anche nel caso di picchi produttivi transitori legati a particolari commesse, laddove non si ritenga di fare ricorso alla somministrazione, alle assunzioni a termine o più banalmente al lavoro straordinario (sia pure all’interno di massimali giornalieri, settimanali e annui). La sede di questo scambio sta nella contrattazione decentrata e di prossimità, che gode anche di benefici fiscali migliorati nella legge di bilancio.
Riduzione oraria della settimana di lavoro: il caso dei metalmeccanici
Quando i metalmeccanici posero con forza la questione della riduzione dell’oraria settimanale di lavoro di 40 ore settimanali nel contratto del 1969 normalmente su cinque giornate lavorative, l’orario legale era ancora di 48 ore, ma quello contrattuale variava nei diversi settori: da 42 ore nell’auto fino a 44 ore nella navalmeccanica. Nel contratto venne previsto che tutti i settori arrivassero alle 40 ore entro la scadenza, anche se l’ultima tranche nella navalmeccanica scattò in zona Cesarini. Venne creata però una nuova fattispecie di orario che fu chiamato ‘’supplementare’’, mentre lo straordinario – questa fu la mediazione – partiva dopo le 48 ore. Da allora la politica degli orari ha subito, nella contrattazione collettiva, ulteriori riduzioni, attraverso una maggiore possibilità di un uso flessibile della manodopera che ha contribuito ad allontanare la tentazione di adottare a scatola chiusa mode provenienti dall’estero.
Settimana corta: il mito delle 35 ore
È il caso, ad esempio, delle 35 ore settimanali, stabilite in Francia, ai tempi della presidenza del socialista Lionel Jospin, da due leggi nel 1998 e nel 2000, per entrare definitivamente in vigore due anni dopo. Per quanto riguarda gli effetti di questa misura – modificata da Emmanuel Macron durante il suo primo mandato – sull’economia nel suo complesso è in atto da anni un dibattito divisivo per quanto riguarda sia la creazione di posti di lavoro, sia gli incrementi del costo del lavoro e delle sue conseguenze sull’occupazione. In pratica la drastica riduzione d’orario laddove è stata applicata ha finito per trasformare in lavoro straordinario le ore lavorate oltre le 35 settimanali o ad aumentare i giorni di ferie ma non a ridurre gli orari di fatto. Nessun altro paese OCSE ha attuato una politica di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Anche in Italia il mito delle 35 ore ebbe un momento di gloria, fino al punto di affondare il primo governo Prodi per iniziativa del PRC di Fausto Bertinotti. Poi, da noi, la normativa dell’orario di lavoro è stata innovata dalla legge n. 66 del 2003 nella quale, senza mettere in discussione le classiche 40 ore, si consente ai contratti collettivi di stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno (c.d. orario multiperiodale).
Settimana corta o weekend lungo? Non vale per tutti
È opportuno tenere conto di questi percorsi graduali in grado di mediare tra le esigenze della produzione e quelle del lavoro. Senza sentirsi pronti ad assaltare il Palazzo d’Inverno. Basta valutare quanto sta avvenendo in altri Paesi (in Islanda e UK e più recentemente in Spagna, Scozia, Nuova Zelanda e Portogallo) – che hanno sperimentato la settimana lavorativa di 4 giorni – per accorgersi che – nonostante gli ululati di soddisfazione – siamo in presenza di casi di nicchia (con un numero limitato di lavoratori interessati), destinati a restare tali per molto tempo ancora nel tentativo di trovare una strategia che possa conciliare il lavoro e l’occupazione con le trasformazioni tecnologiche in atto e che si annunciano.
Proprio perché i grandi soggetti collettivi non si sono ancora resi conto di come affrontare gli effetti della introduzione di nuove tecnologie, si attaccano a tutte le possibili soluzioni che appaiono all’orizzonte, rischiando di scambiare per farmaci salvavita gli sciroppi per la tosse. In Italia le aziende che hanno già sperimentato l’accorciamento della settimana lavorativa dichiarano risultati positivi e anche alcune grandissime aziende stanno lanciando sperimentazioni. Tra queste ultime troviamo ad esempio Intesa Sanpaolo che da gennaio ha proposto su base volontaria un nuovo modello di organizzazione del lavoro, con la possibilità di lavorare 4 giorni a settimana, invece che 5, ma aumentando a 9 le ore giornaliere. In sostanza: settimana corta, weekend lungo.