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Lavoro, le riforme lasciate a metà generano mostri: il caso della Fiat di Pomigliano

Le riforme del mercato del lavoro lasciate a metà generano mostri. Avremmo dovuto abrogare l’art. 18 ma non l’abbiamo fatto. Cosi come è l’art. 18 può essere interpretato in qualsiasi modo: dipende dal giudice e dalla sua sensibilità e cultura. Andiamo bene! A Bologna un dipendente insulta pesantemente, sia pure via mail, i suoi dirigenti e viene licenziato. Il giudice dice che si tratta di una colpa lieve (del resto gli insulti non erano per lui) e ne ordina il reintegro. Con le debite differenze, sarebbe come se il giudice avesse imposto al Presidente della Sampdoria, Garrone, di reintegrare Cassano dopo che questi lo aveva definito “un vecchio di m…”, sia pure in un fuori onda a microfoni aperti.

Avremmo dovuto rivedere i livelli della contrattazione dando la priorità a quelli aziendali e territoriali per riagganciare il salario alla produttività e al costo della vita. Erano tutti d’accordo, eppure ancora non se ne è fatto nulla. La Cgil, immemore della propria storia che nel 1955, dopo la sconfitta alla Fiat, la vide imboccare per prima la via della contrattazione articolata, oggi si oppone. Perché? Mistero ideologico. Intanto i salari degli operai italiani scendono ai livelli più bassi in Europa e la produttività langue.

Avremmo dovuto affrontare il nodo della rappresentatività sindacale: dei diritti e dei doveri, cioè, di chi rappresenta i lavoratori, della sua legittimità a farlo e, soprattutto, delle modalità con cui lo deve fare, ma non se ne è  neppure cominciato a parlare. Nel vuoto normativo si è intanto inserita la magistratura e lo ha fatto con una doppia sentenza che il prof. Ichino, che è un gentiluomo, ha definito “inopportuna”, ma che a me sembra francamente sbagliata e pericolosa. Un giudice di Roma ha ordinato alla Fiat di assumere nel suo stabilimento di Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom. Motivo? Sarebbero stati discriminati. Tutti i 145? No. I veri discriminati sarebbero in realtà soltanto i 19 che hanno fatto ricorso individuale. Da dove  vengono allora gli altri 126?

Semplice, dalla divisione del totale dei richiamati al lavoro, circa 2.000, per il numero degli iscritti alla Fiom. Ogni commento è superfluo. Diciamo con Ichino che si tratta di una sentenza inopportuna e anche un po’ cervellotica. Il fatto grave però è che questa sentenza reintroduce in Italia un istituto che non esisteva più, quello cioè dell’Imponibile di mano d’opera. Per chi non lo ricordasse era quell’istituto, voluto da Giolitti, che affidava al Sindacato (in questo caso al giudice) anziché all’imprenditore agricolo, la decisione sul numero di lavoratori che l’impresa doveva assumere per svolgere determinate funzioni. L’abuso che ne fece il sindacato nel biennio rosso, 1919- 1920, contribuì non poco a spingere gran parte degli agrari nelle braccia del fascismo.

Ma la cosa più grave della sentenza è che introduce in Italia un istituto che noi non avevamo e che esisteva soltanto in Inghilterra, che lo ha poi abolito: il closed shop, che obbligava le imprese (in origine le tipografie) ad assumere soltanto gli iscritti al sindacato che, per fortuna dell’ Inghilterra, era soltanto uno. Se questa sentenza dovesse fare scuola ci si dovrebbe chiedere con quali criteri andrebbe deciso il numero di lavoratori da assegnare a ciascun sindacato: si dovrà fare riferimento ai risultati delle elezioni interne oppure al numero degli iscritti? E quale destino andrà riservato a quelli che non votano e non aderiscono a nessun sindacato? A rigor di logica non se ne dovrebbe assumere nessuno.

Il sindacato, a sua volta, come selezionerà i propri  candidati all’assunzione? Indirà un concorso, estrarrà a sorte o affiderà la scelta all’impresa?  Mistero. L’unica cosa chiara è che il giudice non si è posto il problema e non ha valutato le conseguenze della sua sentenza. Un caso palese d’irresponsabilità per il quale non esistono al momento sanzioni.

La Fiat ha reagito all’inglese. Posta di fronte all’obbligo di assumere lavoratori che non ritiene al momento necessari, ha deciso di metterne altrettanti in mobilità. Dura ma lineare. C’è solo da augurarsi che nei 45 giorni che la legge mette a disposizione delle parti per trovare un’intesa si trovi una soluzione, che sarebbe  del resto del tutto possibile, se soltanto la magistratura non venisse più coinvolta, se la Fiom accettasse, pur mantenendo le sue critiche, il contratto che la maggioranza dei lavoratori ha liberamente sottoscritto e se la Fiat (Marchionne) si convincesse che l’Italia non è l’America e che ci vuole un poco di pazienza ma che alla fine il bene prevarrà.

Da ultimo, si era detto che avremmo dovuto affrontare il nodo delle relazioni industriali per muoverci con decisione verso la co-gestione, ma anche su questo fronte, al momento, non c’è nulla di nuovo da segnalare. Le iniziative di Del Vecchio (Luxottica) e di Della Valle (Tod’s) di distribuire bonus aziendali e di implementare le pratiche di People Care sono certamente lodevoli, ma col problema della co-gestione non hanno molto a che fare.

Il problema della co- gestione è, in realtà, quello della comune assunzione di responsabilità da parte degli imprenditori e dei lavoratori rispetto al futuro dell’impresa. E’ il problema della condivisione degli onori ma anche degli oneri, dei successi ma anche del le difficoltà e delle crisi. Questo comporta che il sindacato passi da una cultura antagonistica ad una partecipativa, che si faccia parte attiva e dirigente nel processo  produttivo e che collochi all’interno di questo quadro la difesa attiva degli interessi dei lavoratori. Il sindacato può farlo in due modi: facendo quello che hanno fatto i sindacati della Chrysler, oppure, se non ama il modello americano, può imboccare la via tedesca della  co-gestione. L’importante però è che decida  di farlo e che si muova di conseguenza. 

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