“Licenziare per salvare l’occupazione”: questo il titolo che non lascia spazio ad ambiguità di un articolo di un grande economista italiano, Paolo Sylos Labini, pubblicato nel 1985 in prima pagina su la Repubblica, allora diretta da Eugenio Scalfari. In quell’articolo Sylos Labini, da sempre considerato vicino alla sinistra, sosteneva la necessità di modificare l’art. 18 per ridurre le garanzie, pur senza annullarle, in uscita dal posto di lavoro, perchè in questo modo si sarebbero tolti degli ostacoli alle assunzioni a tempo indeterminato da parte delle imprese. E’ una lezione che allora rimase del tutto inascoltata sia da parte delle forze politiche, sia dai sindacati. E che suscitò l’attenzione solo delle Brigate Rosse, tanto che quel pezzo fu trovato in numerosi covi delle varie formazioni eversive che allora puntavano a colpire specialmente i riformisti come Tarantelli e più tardi Biagi.
Ancora oggi la tendenza tutta italiana a discutere di questioni economiche, in special modo quelle riguardanti il mercato del lavoro, in termini ideologici o genericamente politici, cioè facendone un simbolo intorno al quale costruire il proprio potere, porta spesso a trascurare completamente il merito delle questioni a non valutare gli effetti concreti di certe norme, anche quando è palese che esse portano a risultati opposti a quelli che si volevano perseguire. E nelle scienze sociali non è infrequente che le conseguenze siano inferiori o addirittura opposte a quelle attese. Un approccio pragmatico alla realtà porterebbe persone ragionevoli a sedersi intorno ad un tavolo per cercare di trovare percorsi diversi che possano avere risultati migliori. Ma senza tabù pregiudiziali e senza poteri di veto derivanti solo da una vecchia concezione dei rapporti di forza.
Quando il Governo Monti ha posto l’esigenza di riformare il mercato del lavoro, la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, ha subito alzato delle barriere ideologiche cominciando a dire che l’art. 18 era una “norma di civiltà”, dimenticando di ricordare che tutti i lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti non ne sono coperti e che non si possono ritenere incivili tutti i paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, dove una norma simile non esiste. Con queste premesse era ovvio che il negoziato tra Governo e sindacati avrebbe potuto avere uno sbocco positivo solo se i cambiamenti fossero stati talmente modesti da non modificare sostanzialmete nulla. Ora si è arrivati alla rottura. La Cgil ha proclamato uno scipero generale. E magari quando la riforma entrerà in vigore, si prepara a promuovere un referendum abrogativo così come fece con i punti di contingenza venticinque anni fa, ricevendo una sonora bocciatura dal corpo elettorale. Ora la Camusso sostiene che l’articolo 18 è un deterrente contro i licenziamenti di massa e che oggi, proprio nel bel mezzo di una grave crisi economica, non si può dare questa libertà alle aziende. Insomma questa sarebbe casomai una riforma da fare nei periodi di espansione dell’economia quando è facile per i lavoratori passare da un lavoro ad un altro, ma non oggi quando il lavoro non c’è. Si trascura di considerare che in realtà l’art.18 non difende certamente i lavoratori rispetto alla chiusura delle aziende come dimostra il rilevante aumento della disoccupazione registrato negli ultimi mesi, mentre invece è evidente che il cattivo funzionamento del mercato del lavoro è uno degli elementi che tengono lontani gli investitori dall’Italia. E se non sapremo riformare tutti questi fattori di freno che hanno per lungo tempo compresso la competitività del Paese, ben difficilmente potremo sperare in una ripresa economica abbastanza robusta da creare nuova occupazione.
Al di là della Cigl vale forse la pena chidersi se le nuove norme proposte dal Governo (anche se il testo dell’articolato non è ancora noto) riescano davvero a creare un rapporto diverso tra impresa e lavoratori contribuendo a costruire quell’ambiente più favorevole per coloro che vogliono iniziare o ampliare una attività economica. Sicuramente è stata ristretta la flessibilità in entrata. E questo è positivo anche per eliminare quelle forme anomale di ingresso al lavoro che chiaramente sono attuaalmente usate per aggirare la mancanza di flessibilità in uscita. Ma questo non deve comportare un costo eccessivo e soprattutto un aggravio burocratico che, vista la scarsa fiducia degli italiani nell’amministrazione pubblica, vanificherebbe gli obiettivi che ci si propone. Buona la generalizzazione degli ammortizzatori a tutti i disoccupati ed una loro più severa regolamentazione con lo scopo di incentivare la ricerca di una nuova occupazione anche da parte del lavoratore. Ma anche qui è importante che si riorganizzino gli uffici di collocamento e la formazione. Il fatto che sarà necessario coinvolgere le Regioni (spesso più inefficienti dello Stato) lascia qualche perplessità. Infine la modifica dell’articolo 18 per quel che riguarda i licenziamenti disciplinari da un lato prevede una indennità minima di 15 mesi che per le piccole aziende può essere troppo onerosa, e dall’altro affida al magistrato una discrezionalità eccessiva se non sono ben specificate le fattispecie del reintegro.
Il problema centrale dell’Italia è che per uscire da questa crisi sarà necessario crescere di più. Per farlo occorrono riforme capaci di innalzare il nostro potenziale di crescita negli ultimi anni compresso dalle troppe regolamentazioni e dall’eccessiva spesa pubblica causa di una troppo elevata tassazione. Oggi tutti sono chiamati non tanto e non solo a fare sacrifici, quanto a mostrare disponibilità a rinunciare ad alcuni privilegi che peraltro armai non servono più a proteggerci dall’impetuoso cambiamento della situazione mondiale. Sono pigrizie mentali e vecchie abitudini che dobbiamo lasciarci alle spalle. Le misure adottate in questi ultimi mesi distribuiscono gli oneri un po’ su tutte le categorie sociali. Quello che manca ancora è una decisa azione di taglio della spesa pubblica e di riduzione del debito attraverso una politica di privatizzazioni in modo da accumulare risorse per fare un pò di investimenti pubblici e avviare una visibile riduzione della tassazione senza la quale le nostre speranze di ripresa non potranno concretizzarsi. Venerdì in Governo, oltre alla riforma del mercato del lavoro, dovrebbe approvare la delega fiscale. Lì si vedrà se ci saranno concrete prospettive di arrivare già alla fine di quest’anno ad un abbassamento della pressione fiscale.