È stata definita ‘’storica’’ la sentenza della Corte di Cassazione n.27711 depositata il 2 ottobre scorso. E storica lo è davvero, ma non per i motivi sbandierati da esponenti dei partiti di opposizione che hanno visto nella sentenza un assist risolutivo nel dibattito sul progetto di legge sull’introduzione del salario minimo legale (AC 1275). La sentenza può fregiarsi di quell’attributo perché è ‘’eversiva’’, nel senso che sconfessa una giurisprudenza consolidata nell’interpretazione dell’articolo 36 della Costituzione, ed entra con i mezzi cingolati del diritto nel campo dell’autonomia collettiva e della libertà sindacale sancita anch’essa dalla Legge fondamentale al comma 1 dell’articolo 39.
Il caso: lo stipendio di un dipendente Carrefour
La sentenza accoglie (con rinvio) il ricorso di un dipendente di una cooperativa che lamentava la non conformità all’articolo 36 della Costituzione del suo stipendio di vigilante (in un supermercato Carrefour) nonostante fosse quello indicato dal Ccnl Servizi Fiduciari. In primo grado il giudice gli aveva dato ragione confermando l’inadeguatezza dell’emolumento. La Corte di appello si era attenuta invece sulla linea della giurisprudenza consolidata affermando che la valutazione di conformità del giudice non poteva applicarsi in presenza di contratti collettivi vigendo il principio della libertà sindacale. Secondo la Suprema Corte quando l’articolo 36 prescrive che nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”. Tali requisiti pongono limiti – sempre sindacabili dal giudice – che prevalgono sulla stessa contrattazione collettiva “che non può tradursi, in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale. Pertanto, “nell’attuazione dell’art.36 Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale, tuttavia, può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’ art. 36 Cost ., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata”.
La necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione, prosegue la sentenza, “per individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale, si pone dunque in ogni caso, ed anche in questa causa in cui il giudice è stato chiamato a sindacare il salario applicato da una cooperativa di lavoro ed attraverso di esso la stessa legge che sta a monte imponendone l’applicazione”. Ma come può orientarsi il giudice nel contesto di un’economia di mercato, dove la retribuzione non può essere una variabile indipendente? Le parti, negoziando, cercano un equilibrio tra diverse esigenze tutte meritevoli di tutela perché nel campo del lavoro è devastante l’applicazione del principio ‘’ pereat mundus iustitia fit’’? Secondo la Cassazione può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe”.
Infine, nell’opera di verifica della retribuzione minima adeguata “può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici”, non dovendo però ancorare la propria valutazione, per esempio, alla soglia di povertà fissata dall’Istat annualmente ma accogliendo una nozione più ampia, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, per la quale si deve tener conto “anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.
Corte: il lavoratore ha il diritto di uscire dal salario contrattuale della sua categoria
L’intervento giudiziale, precisa la Corte, può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, “ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”. Dal momento che “per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”.
Spetta dunque al giudice di merito “valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.”, mentre il lavoratore “deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità”. Al lavoratore dunque “spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione”. E’ facile obbiettare che seguendo questa interpretazione dell’articolo 36 Cost. vengono meno quelle certezze che sono indispensabili alla conduzione di una qualunque impresa, a partire dal costo del lavoro, il cui ammontare può essere messo in discussione anche quando in materia è stato raggiunta un’intesa nell’ambito della contrattazione collettiva di diritto comune.
Seconda questa logica sarebbero sub judice lo stesso salario minimo stabilito per legge e il contratto collettivo nazionale stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, anche se si trovasse un meccanismo per renderne erga omnes l’applicazione. Soltanto una disperata condizione di impotenza potrebbe indurre i sindacati ad accettare come un fatto positivo un vero e proprio esproprio dalle loro naturali e specifiche funzioni. Tutta l’attività attinente alle relazioni industriali verrebbe paralizzata per non correre il rischio di una avvilente smentita in giudizio, su istanza di un solo lavoratore. Poi non ha alcun senso isolare in un contratto la parte retributiva prescindendo con questa sentenza si chiude l’aggressione giudiziaria al diritto sindacale, aprendo anche nel campo del diritto penale quell’aggiramento che abbiamo visto operare, in modo ricattatorio, nel caso delle grandi aziende della vigilanza privata. E’ la medesima ‘’distorsione istituzionale’’ denunciata da Filippo Sgubbi quando scrive che: ‘’la decisione giurisprudenziale diventa – secondo il giurista – una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente’’
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