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Lavoro, Inapp: boom di contratti a termine ma l’occupazione non sale

La flessibilità nel nostro Paese si traduce in maggiore precarietà e incertezza. È quanto emerso dal primo Rapporto dell’Inapp sulle trasformazioni nel mercato del lavoro a fronte dei macro-trend globali di cambiamento dei sistemi economici, con spunti di riflessione sull’interazione tra tali processi e lo shock pandemico. Tra le fasce più colpite i giovani e le donne

Lavoro, Inapp: boom di contratti a termine ma l’occupazione non sale

Precarietà del lavoro, salari al minimo, disoccupazione giovanile e inasprimento della disuguaglianza di genere. È l’inquietante fotografia del primo Rapporto dell’Inapp che riprende una tradizione trentennale dell’Isfol e prova a tracciare (in 8 capitoli) le trasformazioni in corso nel mercato del lavoro e nei sistemi della formazione professionale con focus su Pubblica Amministrazione, Terzo Settore e Politiche d’inclusione. In Italia la flessibilità ha prodotto una eccessiva precarietà e questo trend continua anche nella fase di ripresa dell’economia post Covid.

Nell’ultimo decennio, i contratti a tempo determinato sono aumentati esponenzialmente registrando un’impennata del +36,3%. Tuttavia, a fronte di questo incremento non si è rilevata allo stesso tempo una variazione sostanziale dell’occupazione (pari appena all’1,4%). Non è tutto: anche la distribuzione funzionale del reddito ha mostrato un calo persistente, conseguenza della contrazione marcata delle retribuzioni salariali a fronte del trend crescente, anche se debolmente, della produttività del lavoro.

La flessibilità nel nostro Paese si traduce in maggiore precarietà e incertezza. Un andamento che continua a crescere nonostante la ripartenza del Paese, dove in primis sono le imprese a non scommettere sul capitale umano scegliendo contratti a termine, part time e di somministrazione. Difatti, nel trimestre marzo-maggio 2021 gli occupati precari sono saliti di 188mila unità mentre gli stabili sono diminuiti di 70mila unità. Alla fine, solo il blocco dei licenziamenti ha tutelato i lavoratori più fragili.

“Nell’ultimo anno e mezzo per via della crisi innescata dalla pandemia molti lavoratori sono stati artificiosamente “congelati” nei loro posti di lavoro e adesso bisogna avere la capacità di “scongelare il lavoro” sostenendone la domanda sia nei settori tradizionali più colpiti sia in quelli più innovativi – ha commentato Sebastiano Fadda, Presidente dell’Istituto -. “Scongelare il lavoro” dopo il blocco dei licenziamenti significa scommettere con determinazione sulla crescita economica e sulle politiche attive, in particolare per la formazione dei lavoratori che deve essere anche la base del reddito di cittadinanza; ovvero: bisogna fornire ai disoccupati non solo un sostegno economico ma soprattutto la possibilità di accrescere le proprie competenze. Come? Rilanciando e potenziando i centri per l’impiego, la cui azione è oggi fortemente carente. Pur essendo chiaro che non si può attribuire alle politiche attive e ai centri per l’impiego il compito di “creare” nuovi posti di lavoro, grava tuttavia su di essi il compito da un lato di favorire la copertura dei posti vacanti facilitando l’incontro tra domanda e offerta e dall’altro il compito di favorire l’acquisizione delle nuove competenze richieste dall’evoluzione dei sistemi produttivi”.

Per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione si è rilevata una riduzione progressiva e costante del numero di dipendenti pubblici negli ultimi due decenni: circa 350mila unità, pari al 10% dell’organico, di cui 212mila solo nell’ultimo decennio. Alla riduzione ha fatto da contrappunto il suo crescente invecchiamento, con un’età media dei dipendenti di 50,7 anni (era di 44 anni nel 2003) e una quota di under 30 pari ad appena il 3% del totale dei dipendenti, sei volte in meno degli over 60 (18%).

In particolare, nella PA si analizzano due settori: quello sanitario (un medico su cinque ha più di sessant’anni, sono previste per anzianità nei prossimi 5 anni 25mila uscite che salgono a 42mila per gli infermieri) e quello della scuola (negli ultimi dieci anni malgrado le assunzioni il personale over 60 è più che raddoppiato e il suo peso sul totale è passato dal 9 al 20%, tra i docenti a tempo indeterminato, il 22% ha più di 60 anni, e un altro 22% appartiene alla classe 55-59 anni: in tutto sono più di 280mila insegnanti (su 640mila) che per anzianità usciranno da qui ai prossimi 5 anni).

Altro tema approfondito è quello del Terzo Settore dove operano quasi 360mila unità ma con il 14,2% di queste che a causa dell’emergenza sanitaria ha dovuto sospendere o chiudere le proprie attività di assistenza. Di contro, la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza durante l’anno segnato dalla pandemia è raddoppiata raggiungendo 2,8 milioni di persone. Un risultato che dimostra come l’emergenza sanitaria abbia colpito le fasce più deboli.

E i giovani? Tra le maggiori vittime della crisi sanitaria ci sono proprio i giovani, soprattutto quelli del Nord a causa delle misure restrittive introdotte per contenere la diffusione dei contagi, mentre l’impatto sulle regioni del Sud, secondo i risultati, è stato più contenuto. In particolare, Lombardia, Trentino-Alto Adige e Veneto mostrano le riduzioni maggiori. D’altra parte, alcune regioni come Calabria, Sicilia, Molise e Campania sembrano aver risentito meno della situazione pandemica.

Inoltre, nel periodo emergenziale si è rilevato anche un forte inasprimento delle disuguaglianze di genere con l’Italia già al di sotto della media Ue in termini di occupazione femminile. A dicembre 2020, le donne occupate erano 9 milioni e 530mila contro 13 milioni e 330mila uomini. Attualmente si contano circa 444mila occupati in meno, di cui la maggior parte donne (312mila) e solo il 2% uomini.

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