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Lavoro e magistratura, un rapporto difficile con troppe invasioni di campo: dal caso Mondialpol alla “guerra” ad Amazon

FIRSTonline

Si parla molto in questi giorni delle dimissioni del presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, dopo un lungo periodo trascorso agli arresti domiciliari per l’accusa di corruzione e di finanziamento illecito. Non è nel dna di questa rubrica affrontare questioni di diritto penale applicato alla politica; ma c’è un aspetto talmente evidente che può essere notato da chiunque. Toti aveva diritto alla presunzione di innocenza almeno fino a quando le sue responsabilità non fossero state accertate da un giudice (nella sua posizione possiamo anche passare sopra ai tre gradi di giudizio e accontentarci di uno).

Con la gestione degli arresti domiciliari, la procura di Genova è riuscita a anticipare già nella fase delle indagini, uno degli obiettivi che si poneva, appunto le dimissioni del governatore benché ‘’tecnicamente’’ innocente. Ma se i casi di ingresso a gamba tesa nell’arena politica delle procure sono ormai una prassi consolidata, non era mai successo fino a pochi mesi fa che la magistratura inquirente si assumesse l’onere di regolare i rapporti di lavoro e l’organizzazione produttiva. Certo. Qualunque controversia di lavoro, qualsiasi violazione dei diritti dei lavoratori può essere portata, accertata, sanzionata da un giudice terzo. Ma fino a quel momento non esiste che in via pregiudiziale una parte abbia ragione e l’altra torto.

Un nuovo filone nel campo del diritto penale: il caso Mondialpol

La procura di Milano ha scoperto un nuovo filone nel campo del diritto penale. E la sua crociata è partita da un’indagine su Mondialpol, la maggiore società di vigilanza privata che fu accusata di caporalato e sfruttamento dei lavoratori e di conseguenza ‘’decapitata’’ attraverso, come prevede la legge, il controllo giudiziario. La società, da conto suo, corse ai ripari decidendo un sostanzioso aumento scaglionato per il personale che prestava servizio senza l’uso delle armi, ovvero coloro che svolgono il ruolo di uscieri e di portinai, nelle istituzioni pubbliche e private. Preso atto del ‘’ravvedimento operoso’’ la procura revocò il controllo giudiziario. Dopo il caso della società Mondialpol (il medesimo trattamento toccò a Sicuritalia) la solerte procura meneghina prese di mira un’altra azienda del settore, la Cosmopol, seguendo la procedura già svolta in precedenza: la nomina di un commissario giudiziale mentre erano in corso le indagini per il reato di caporalato e di sfruttamento dei lavoratori.

La Cosmopol è una società campana che ha quasi 4mila dipendenti e un fatturato di 132 milioni di euro ed un utile di 6,5 milioni. Anche il suo personale è impiegato con funzioni di vigilanza in molte aziende pubbliche e private di primaria importanza come le Poste, Enel, Leonardo, Fiera di Milano e istituto San Paolo. Ciò significa che l’azienda – come del resto le altre – è stata selezionata nel rispetto delle procedure di legge, magari secondo il criterio del massimo ribasso. È poi evidente che la linea di condotta, scelta dalla procura, tende ad esaurire la questione a livello delle indagini, senza arrivare alla sentenza di un giudice, anzi senza neppure adirlo. Il caso Mondialpol fu di insegnamento: la società decise di dare corso ad un aumento unilaterale delle retribuzioni (in pratica pagò una sorta di riscatto) per liberarsi – come poi avvenne tramite la revoca – del controllo giudiziario. Queste discutibili iniziative aprono un nuovo capitolo per quanto riguarda il ruolo della magistratura inquirente nel campo del lavoro.

La Cosmpol fu indotta, nei fatti, a seguire l’esempio della Mondialpol per liberarsi – tramite la revoca – del controllo giudiziario, completando così il tentativo di risolvere il contenzioso in fase di indagini, magari con l’aiuto della gogna mediatico-giudiziaria, sempre in agguato. Del resto, sappiamo come funzionano questi eventi: basta gonfiare un po’ la storia per indurre le aziende appaltanti che si avvalgono di questi servizi a dare disdetta ai contratti in corso con l’azienda accusata di caporalato e di sfruttamento dei lavoratori.

Nei giorni scorsi (si veda l’articolo di Ermes Antonucci su Il Foglio di venerdì) la procura di Milano ha reso noto il bilancio di questo singolare modo di ‘’fare giustizia’’: 14mila assunzioni, aumenti di stipendio per altri 70mila lavoratori, recupero di 500 milioni di imposte.

La “guerra” della Procura di Milano ad Amazon

Dopo le aziende della vigilanza e della distribuzione (Dhl, Gls, Uber, Lidl, Brt, Geodis, Esselunga, Securitalia, Ups, Gs del gruppo Carrefour e Gxo), i ‘’vendicatori in toga” si sono dedicati ad Amazon (il nemico pubblico n.1), che, secondo l’accusa, nella gestione dei servizi di logistica, relativamente alla consegna dell’ultimo miglio ( quelli che portano il pacco), per risparmiare sul lavoro, ed evadere le tasse, usava il rodato sistema dei “serbatoi di manodopera”, quello più diffuso e divenuto ormai modalità consueta. La somministrazione ritenuta illecita di manodopera, per risparmiare anche poche frazioni di centesimo su ogni pacco, avviene nel solito modo: l’appaltatore, Amazon, si rivolge a cooperative più o meno legali per avere il personale adibito alla consegna, in questo caso corrieri e autisti. Per questi motivi la procura di Milano ha chiesto il sequestro d’urgenza di oltre 121 milioni di euro. Nel caso di Amazon la procura fa ricorso ad una motivazione più sofisticata che nei casi precedenti, chiamando in causa l’evasione fiscale che sarebbe l’obiettivo perseguito attraverso l’organizzazione del lavoro. In precedenza, soprattutto nelle imprese di vigilanza, il commissariamento giudiziale (che toglieva all’impresa la gestione dell’attività) faceva riferimento ad una legge del 2016 contro il caporalato.

La legge del 2016 contro il caporalato

Ma come si fa ad applicare a questi casi quella legge? I profili del reato sono evidenti fin dal primo articolo: vi incorre chi recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; chi utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al punto precedente, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro ‘’stato di bisogno’’. Questa condizione ha un senso se riferita – come prevedeva la legge – ad uno straniero clandestino, trasportato all’alba, insieme ad altri, dal caporale su di un campo di pomodori. Ma non si può parlare in termini analoghi di ‘’stato di bisogno’’ per un ‘’vigilante’’, perché con siffatta logica, chiunque lavori si trova in una condizione di bisogno. Sappiamo che una giurisprudenza consolidata ha assicurato, sulla base dell’articolo 36 della Costituzione, la tutela di salari minimi anche in assenza di una estensione erga omnes dei contratti collettivi. Ciò in quanto – in caso di controversia – i giudici hanno sempre considerato ‘’proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa’’ la retribuzione di un lavoratore corrispondente a quanto previsto dalle tabelle salariali dei contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative. In sostanza, la magistratura si rimetteva a ciò che le parti sociali avevano sottoscritto in base alla loro autonomia contrattuale.

Nel caso delle aziende di vigilanza privata l’intervento giudiziario debordava fino a giudicare la congruità del contratto nazionale (per altro rinnovato da poco dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil, dopo anni dalla scadenza di quello precedente e con decorrenza dal 1° giugno 2023 al 1° maggio 2026). Come altro dovrebbe comportarsi un’impresa iscritta ad una associazione – a cui è affidato il mandato di contrattare con le controparti naturali – se non applicare correttamente quanto da loro stabilito e sottoscritto nel contratto stesso? Quale logica può portare a sanzionare penalmente un’impresa che applica il contratto o che si avvale di procedure di flessibilità previste? Tanto varrebbe, per coerenza, impugnare il contratto nazionale ‘’fellone’’ anziché perseguitare le aziende che lo applicano. Nonché imputare di concorso in reato tutti gli appartenenti alla delegazioni che hanno preso parte al negoziato. Figurarsi che bella retata!

La decisione della Corte di Cassazione

Ci ha pensato la Suprema Corte di Cassazione a blindare l’invadenza della magistratura in materia di lavoro, stabilendo in diverse sentenze che il giudice nell’applicare l’articolo 36 della Costituzione non è vincolato dai contratti collettivi e neppure da un’eventuale legge. E’ un’interpretazione discutibile che destabilizza la divisione dei poteri in uno Stato di diritto e che rafforza la convinzione panpenalista secondo la quale secondo la quale nel diritto penale è possibile ‘’trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male” (Filippo Sgubbi). Ma almeno il protagonista di questa forzatura è un giudice attraverso un processo, non un’azione autonoma di una procura che si accanisce per risolvere, in proprio, il caso, attraverso forme che rasentano l’estorsione e il ricatto.

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