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Lavoro e innovazione: ecco che cosa frena la produttività

Il proliferare di nuovi prodotti digitali e l’avanzata dell’innovazione dovrebbero mettere il turbo all’efficienza economica globale, eppure la produttività totale rimane ancora debole, soprattutto in Italia. Ecco i motivi

Lavoro e innovazione: ecco che cosa frena la produttività

Nuovi prodotti digitali spuntano come funghi e l’innovazione è il carburante dell’efficienza economica e di conseguenza della crescita sostenibile e inclusiva. Perché dunque la crescita della produttività totale è lontana dai picchi pre-crisi finanziaria in tutti i paesi avanzati, ed è particolarmente bassa in Italia?

Una risposta ce la dà la storia della seconda rivoluzione industriale, quella basata sulla forza motrice elettrica: decenni trascorsero tra l’invenzione del motore elettrico a fine 800 e la sua adozione nei processi industriali che può considerarsi completata alla fine degli anni ’20 del 900. La lunghezza della transizione, spiegano gli storici dell’industria, è dovuta alla disruption di questa innovazione che provocò una strage di imprese ben installate nel mercato che non riuscirono però a reggere la concorrenza delle nuove negli anni del boom che precedette la grande crisi del ‘29.

Non a caso, è nel secondo decennio del’900 che Schumpeter mette la “distruzione creatrice“ alla base dello sviluppo economico. Passando dalla forza motrice a vapore all’elettricità, l’intera catena dei processi produttivi doveva essere cambiata, il layout della fabbrica si poteva sviluppare in altezza, le diverse unità potevano essere indipendenti dall’unico motore a vapore che in precedenza muoveva tutti i macchinari e quando in panne bloccava tutta la produzione.

I potenti trusts che dominavano la scena industriale degli Stati Uniti all’inizio del XX secolo si ridussero in numero e anche il loro potere di mercato cadde: dal 1905 al 1929, 42 grandi gruppi manifatturieri persero più di un terzo della loro quota di mercato.  La semplice sostituzione della forza motrice a vapore con quella elettrica non era infatti sufficiente a sostenere la concorrenza delle imprese che sapevano utilizzare tutte le potenzialità e la malleabilità dell’elettricità in fabbrica.

Sulla base della storia e dell’intuizione di Schumpeter, sono le capacità imprenditoriali e manageriali a spiegare sia la bassa crescita che le differenze nella produttività totale tra paesi.  Dal 2004 le capacità del management sono misurate dalla World Management Survey (WMS)con le sue 20.000 interviste. Ma anche la proprietà dell’impresa conta e il WMS trova le performances peggiori nelle imprese familiari e di proprietà pubblica.

Le skill dei dipendenti sono anche importanti: non solo quelle di entrata, ma anche quelle acquisite con il continuo aggiornamento in azienda. A chi gli domandava se non temeva che gli impiegati aggiornati lasciassero l’impresa, un manager di Google ha risposto: e cosa capiterà se non aggiorniamo gli impiegati e questi restano? Il tema riguarda anche la rivoluzione dell’automazione esaminata dalla ricerca Ocse di cui abbiamo parlato recentemente.

Robert Solow nel 1987 osservava che i computer erano dovunque meno che nelle statistiche della produttività. Dieci anni dopo, la produttività negli States era salita al 2,5% annuo, crescita non più vista dagli anni 70.  Oggi siamo in quella che è stata chiamata the second age machine o quarta rivoluzione industriale, ma la crescita della produttività sia negli SU che in EU è scesa dal 2,5 % annuo a cavallo del secolo allo 0,5%.

Un’altra risposta alla domanda perché all’incredibile accelerazione dell’innovazione, approssimata dal numero di brevetti presentati dal 1978 al 2016 nel grafico sotto, non corrisponde, dopo la crisi finanziaria globale, l’aumento della produttività totale è la mancanza degli strumenti di misura appropriati: in particolare si nota che la contabilità nazionale non include il calcolo del surplus del consumatore, dato che molti vantaggi, per esempio dei social media, non sono per le imprese e non sono monetari. Ma le stime del surplus del consumatore rendono conto solo di un terzo della distanza della produttività misurata dalla produttività attesa anche inserendo nel surplus del consumatore non solo il piacere di restare in contatto con amici con Facebook &C., ma anche le foto gratis e soprattutto  il tempo risparmiato con la banca online, la prenotazione di viaggi e alberghi e con l’amministrazione pubblica online, dove funziona.

Questi problemi di misurazione, in particolare del capitale intangibile del quale parliamo sotto, sono talmente importanti che il Fondo Monetario Internazionale ha dedicato il suo Statistical Forum all’argomento la scorsa settimana. L’economia digitale viene anche chiamata knowledge based economy: in questo tipo di economia l’asset di maggior valore è la proprietà intellettuale e quindi gli investimenti in intangibiles, anche quelli non monetizzati, come open source softwares creati da università e governi e in particolare i dati procurati dagli utenti.

Occorre riconoscere che i servizi offerti dai social media non sono gratuiti, ma corrisposti in cambio dei dati offerti gratuitamente dagli utilizzatori. Si tratta di un baratto, sostengono alcuni, ma non di uno scambio di equivalenti visti i profitti – questi sì monetari – realizzati dai social media con pubblicità mirata alle preferenze rivelate dagli utilizzatori e potenziali clientiIl valore dei dati forniti dagli utilizzatori invece non viene incluso nella contabilità aziendale né nazionale, anche se istituzioni come l’Antitrust tedesco hanno già iniziato a tenerne conto. Si potrebbe applicare a big data il paradosso di Solow:  sono dappertutto fuorché nei conti aziendali e nazionali. Uno studio presentato allo Statistical Forum del FMI fa crescere a 125 miliardi di dollari invece di 42 miliardi il valore di Amazon se i dati in suo possesso fossero valutati come attività nel suo bilancio.  Mentre i guru del digitale sparano cifre ben più elevate valutando le attività intangibili al 90% del valore di Standard &Poors 500 e a 4 trilioni di dollari gli intangibles posseduti dalle 4 maggiori imprese digitali nei cui bilanci ci sono solo 220 miliardi di attività tangibili.

Proprio queste caratteristiche delle superstars digitali danno origine a un’altra spiegazione del paradosso della produttività: il potere di mercato delle superstars che può giustificare l’allargamento della forbice tra queste e le altre imprese dal momento che il markup delle superstars continua a crescere.

Grafico 2
Source: presentazione di Jain Goldin, IMF Nov 2018

Con investimenti come quelli di Google pari a $50 md all’anno possiamo però dire che le superstars non stanno usando il loro potere di mercato per soffocare il progresso tecnologico, ma ci sono altri mezzi per consolidare il controllo del mercato. L’acquisto di start up che possono diventare competitors per esempio.  Jim Balsillie, ex CEO di Blackberry, sostiene che gli investimenti esteri nell’epoca digitale non creano più spillovers positivi per i paesi ospiti, ma al contrario fanno bracconaggio di persone e programmi promettenti che vengono spostati in casa madre.  Questo approccio si rifletterebbe negli accordi commerciali che invece di liberalizzare tendono a proteggere.

Ancora un’altra spiegazione si concentra sul mercato del lavoro: mentre gli occupati dell’economia digitale diminuiscono o non aumentano poiché la loro produttività aumenta esponenzialmente, i lavoratori aumentano nei settori meno produttivi e la concorrenza tra loro tiene bassi i salari e spiega la riduzione della quota dei salari sul PIL. Questa dinamica della produttività del lavoro è accentuata dall’immigrazione unskilled e dall’invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati. E si riflette sulla produttività totale dei fattori, come mostra il grafico sotto.

Grafico 3
FIRSTonline

L’aumento in numero e persistenza nel tempo di imprese zombie infine contribuisce a spiegare il paradosso della bassa produttività totale. Senza dubbio le imprese zombie sopravvivono grazie ai bassi tassi d’interesse e la tolleranza delle banche che cercano di evitare poste negative nel loro bilancio. Sono quindi un fenomeno transitorio destinato a scomparire in un’economia risanata alla conclusione delle politiche monetarie espansive che hanno permesso di superare la crisi finanziaria globale e le sue conseguenze di stretta creditizia e crisi dell’economia reale.

Insieme, le spiegazioni presentate spiegano la bassa crescita odierna della produttività anche nelle economie sede di superstars. Misurare e regolamentare l’economia digitale resta il compito dei governi nazionali e delle organizzazioni internazionali: come raggiungere l’obiettivo di assicurare vantaggi per tutti con la crescita della produttività aggregata riducendo allo stesso tempo l’aumento della diseguaglianza generato finora?

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