Il numero delle ore che passi al lavoro influisce su quanto guadagni. Banale? Solo in apparenza. Non parliamo della differenza scontata fra le buste paga di lavori part-time e a tempo pieno, ma della possibile spiegazione a uno dei problemi macroeconomici più inattesi (e spinosi) degli ultimi anni.
Partiamo dall’inizio. Nell’Eurozona il tasso di disoccupazione scende ormai dalla seconda metà del 2013, ma questo fenomeno non si accompagna a un’adeguata crescita dei salari, che rimane modesta. La questione è antica e viene citata spesso dal presidente della Bce, Mario Draghi.
In diverse occasioni il numero uno dell’Eurotower ha chiamato in causa l’andamento anomalo dei salari per spiegare la fatica imprevista con cui risale l’inflazione. I lavoratori guadagnano meno di quello che dovrebbero, di conseguenza – è inevitabile – spendono meno. Questa zavorra pesa sulla dinamica dei prezzi, ancora lontana dall’obiettivo Bce di un tasso “inferiore ma vicino al 2%” malgrado i potenti stimoli monetari messi in campo dalla stessa Banca centrale europea (a dicembre, secondo le prime stime, l’inflazione annua è calata all’1,4%).
Già la scorsa primavera, Draghi aveva sottolineato come “un’importante fonte della debolezza dell’inflazione di base sia stata la debole pressione inflazionistica interna, dovuta in parte alla crescita modesta dei salari”.
Ma qual è il meccanismo all’origine di tutto questo? Come si spiega l’asimmetria fra l’andamento della disoccupazione e quello dei salari? Lo scorso 28 dicembre, la Banca d’Italia ha pubblicato uno studio dal titolo “La dinamica salariale nell’area dell’euro: quali prospettive?”, a cura di Guido Bulligan, Elisa Guglielminetti e Eliana Viviano, in cui prova a dare una risposta.
Secondo gli analisti di Via Nazionale, l’indicatore su cui puntare il dito è “il margine intensivo dell’utilizzo del fattore lavoro”, cioè il numero di ore lavorate, che svolgerebbe “un ruolo importante nella crescita dei salari”.
Per capirne il motivo bisogna fare riferimento alla “curva di Phillips”, che rappresenta graficamente la relazione inversa tra il tasso d’inflazione e quello di disoccupazione. In altri termini, il fatto che quando aumenta la disoccupazione il livello dei prezzi scende, e (in teoria) viceversa.
Ecco, le stime di Bankitalia “indicano che la pendenza della curva di Phillips si riduce al diminuire delle ore per lavoratore, cosicché il tasso di disoccupazione ha un impatto inferiore sulla crescita dei salari”.
Ma “non in tutta l’Eurozona le aziende intervengono attivamente sul margine intensivo – si legge ancora nello studio – Fra i Paesi esaminati, si sono registrate modifiche frequenti del margine intensivo solo in Germania, Italia e Olanda. In questi Paesi, le stime collegate alla curva di Phillips migliorano sensibilmente al variare delle ore lavorate pro capite. I nostri risultati possono spiegare anche l’appiattimento della curva di Phillips osservato negli ultimi due anni”.
In prospettiva, perciò, “un aumento significativo del margine intensivo appare fondamentale perché i salari riprendano a crescere in modo sostenuto”, sostiene Bankitalia.
Leggi l’analisi di Alessandro Fugnoli: “Salario e occupazione, la curva di Phillips non funziona più“.
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