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Lavorare di più per favorire la crescita

L’internalizzazione dei mercati e la globalizzazione dei sistemi produttivi hanno, negli ultimi vent’anni, modificato radicalmente i paradigmi della competitività e produttività internazionale. La durata dell’orario di lavoro annuo, la flessibilità della prestazione lavorativa ed il rapido adeguamento degli organici alle esigenze della domanda possono rendere più o meno conveniente l’allocazione produttiva di un’impresa in una determinata area del mondo.

Nel mondo globale sono favoriti quei paesi che godono di minori vincoli contrattuali o di legge, come i paesi anglosassoni o quelli del Bric, ed in particolare si può riscontrare una correlazione tra il tasso di crescita di questi paesi, e più in generale dei paesi emergenti, e la quantità dell’orario di lavoro annuo.

Secondo i dati dell’indagine internazionale promossa dall’Unione Industriale di Torino, in collaborazione con l’ Associazione degli industriali di Lione, effettuata in 41 paesi e in più di 200 insediamenti produttivi, la prestazione lavorativa effettiva di un operaio turnista, incluso l’assenteismo e lo straordinario, varia dalle 1.510 ore annue della media dell’Eurozona, con una forchetta tra le 1.426 ore medie in Francia e le 1.675 ore in Austria, e, tra i restanti paesi dell’Europa, tra le circa 1.700 della Polonia e della Croazia e le oltre 1.800 della Romania e della Serbia, sino ad arrivare alle oltre 2.000 della Turchia.

Tra i paesi di tradizione anglosassone si va dalle circa 1.800 della Gran Bretagna alle quasi 1.900 degli Stati Uniti e dell’Australia e, nei Bric, da un livello minimo delle 1.600 ore medie della Russia alle oltre 2.000 del Brasile o alle 2.200 e più della Cina e dell’India.

In sostanza, nei paesi con un orario di lavoro annuo progressivamente crescente, si registra un tasso di crescita stabile o sostenuto, mentre al minore orario di lavoro annuo dei paesi dell’ Eurozona corrisponde un tasso di crescita inferiore se non negativo, fatta eccezione per la Germania, che compensa un orario di lavoro in linea con la media dell’Eurozona (1.527 ore annue) con una più alta produttività dovuta alla maggiore intensità della prestazione lavorativa oraria.

Gli attuali orari di lavoro europei, che possono, di primo acchito, sembrare privilegiare la qualità della vita, sono però il frutto di quella cultura neo-pauperista, di matrice cattolica e socialista, del “lavorare meno per lavorare tutti”, che è stata favorita in Germania dal governo socialdemocratico di Gerhard Schroeder con i contratti solidaristici di riduzione orario applicati principalmente nella grande industria, in Francia dalla legge sulle 35 ore settimanali della socialista Martine Aubry, all’ epoca ministro del Lavoro, ed in Italia dalla spinta politico-sindacale a ridurre con i contratti nazionali di lavoro l’orario di lavoro, se non a livello settimanale a 35 ore, come promesso, nel suo primo governo, da Romano Prodi a Fausto Bertinotti, perlomeno a livello annuo con la riduzione delle giornate lavorative pro-capite.

Con l’introduzione dei permessi contrattuali annui per riduzione di orario (da 12 a 15 permessi giornalieri retribuiti di 8 ore secondo i diversi Ccnl) le giornate lavorative teoriche annue, scomputati i permessi, le ferie e le festività infrasettimanali, in Italia sono state portate di fatto a 213 sulle 365 di calendario, o in altri termini a circa sette mesi di lavoro su dodici.

Il calendario annuo italiano di lavoro è in questo modo di circa due mesi inferiore ad esempio a quello statunitense: si potrebbe pertanto dire che negli ultimi sei anni, dal 2007 al 2012, un lavoratore americano ha lavorato un anno in più di un lavoratore italiano!

Se in Francia e Germania si può oggi rilevare una tendenza a definire accordi sindacali per rivedere l’orario settimanale di lavoro e ricondurlo a valori più prossimi a quelli in atto negli altri Paesi industrializzati, grazie anche alle normative nazionali sull’orario che sono diventate più attente ai problemi di competitività, in Italia pare ancora difficile, se non impossibile, pensare ad interventi volti a favorire la crescita con un aumento della quantità complessiva di lavoro.

Ne è una prova la recente proposta del sottosegretario Polillo di rinunciare ad una settimana di ferie per avere un impatto positivo sul Pil di circa un punto percentuale, proposta che ha suscitato un dibattito piuttosto acceso, ma che non è stata raccolta né dai sindacati, totalmente ostici ad intervenire sui diritti acquisiti dai lavoratori, né dalle imprese, che, tra gli interventi adottati per fronteggiare la fase di rallentamento produttivo, sono ricorse proprio alla totale fruizione delle ferie arretrate e di quelle maturate nell’anno.

Tra le misure della “manovra di agosto” del decreto 138 del 13 Agosto 2011, già il precedente Governo era intervenuto sul calendario annuo di lavoro, per ridurre le occasioni dei “ponti lunghi” con i noti effetti negativi sul Pil, spostando, sulla base della più diffusa prassi europea, al venerdì precedente o al lunedì seguente la prima domenica immediatamente successiva le festività civili (25 aprile, primo maggio e 2 giugno) e le religiose, escluse le concordatarie (in sostanza il Santo Patrono).

Come gran parte della “manovra di agosto”, anche questo intervento sul calendario annuo è stato oggetto di polemiche per il valore simbolico delle tre date delle festività civili interessate dal provvedimento, tanto che in fase di conversione del decreto legge nella legge 148 del 14 settembre 2011, oltre alle festività concordatarie, sono state escluse dallo spostamento anche queste tre festività civili, riducendo la possibilità di calendarizzare al venerdì o al lunedì soltanto, di fatto, la festività del santo patrono, la cui data deve essere fissata da un decreto della Presidenza del Consiglio entro il 30 novembre di ogni anno.

Per il 2012, non avendo il Governo emanato il decreto entro il 30 novembre dell’anno scorso, tutti i santi patroni sono ancora festeggiati secondo tradizione, con una singolare coincidenza che il 24 giugno San Giovanni, santo patrono di Torino, Genova e Firenze, quest’anno è caduto di domenica, mentre di venerdì 29 giugno, SS Pietro e Paolo, si è festeggiato il santo patrono di Roma, e sempre dì venerdì cadrà il 7 dicembre Sant’Ambrogio, santo patrono di Milano.

E’ ormai lontano il 1977, anno in cui l’ allora ministro del Lavoro, la democristiana Tina Anselmi, d’intesa con le parti sociali, per accrescere, come si disse, la competitività del sistema produttivo e contenere la dinamica del costo del lavoro, aumentava le giornate lavorative annue abolendo sette festività, cinque religiose (Epifania, San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, SS. Pietro e Paolo) e due civili (2 giugno e 4 novembre), di cui due successivamente reintrodotte (il 6 gennaio nel 1986 e il 2 giugno nel 2001).

Peraltro, come ha rilevato il professore Renato Mannheimer in un suo recente sondaggio, l’ipotesi di rinunciare a una settimana di ferie, a parità di retribuzione, per stimolare la crescita, trova condivisione in oltre la metà della popolazione, consapevole evidentemente più di altri di trovare ogni rimedio per superare questa fase di crisi.

Di questo dovrebbero tenere conto i sindacati nella stagione ormai aperta di rinnovo dei principali contratti nazionali di lavoro, per avviare una manovra antidepressiva con la riduzione, ad esempio, di 5-7 permessi annui contrattuali con la corrispondente loro monetizzazione, piuttosto che una riduzione delle ferie che potrebbe avere un vincolo costituzionale almeno per le prime quattro settimane. Se il Governo poi procedesse alla detassazione e alla decontribuzione di questi importi monetizzati, iniziativa possibile trattandosi di un differenziale positivo rispetto alle attuali previsioni di entrate fiscali e contributive, si otterrebbe un aumento di circa tre punti percentuali dei salari netti per rilanciare i consumi e favorire la crescita del Pil.

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